Valerie Hickey, direttrice generale per l’Ambiente della Banca Mondiale, spiega che la natura è un fattore chiave e la perdita della biodiversità potrebbe scatenare una crisi economica ancora più grave di quella del 2008. Bruciando le foreste, si brucia Pil. Sui sussidi ci sono compromessi da fare, ma bisogna valutare cosa si sovvenziona e dove
Prosperità, lavoro, sicurezza alimentare: biodiversità significa tutto questo, afferma Valerie Hickey, direttrice generale per l’Ambiente della Banca Mondiale.
Perché preservare la biodiversità ha senso dal punto di vista economico?
Tutti abbiamo visto i grandi numeri sulle migliaia di miliardi di dollari che dipendono dalla natura. Temo che questi numeri siano così grandi da non avere alcun significato per le persone. Concentriamoci su alcuni settori. La pesca è il più ovvio. Un mercato da circa 350 miliardi di dollari all’anno solo per il commercio dei frutti di mare. E non è importante solo per l’economia. È importante per la sicurezza alimentare. Il mercato del legno è di 800 miliardi di dollari all’anno. Stiamo parlando, nel complesso, di decine di milioni di posti di lavoro. Abbiamo fatto un lavoro interessante con le Banche centrali. Abbiamo realizzato un rapporto con la Malesia: il 54% dell’intero portafoglio di prestiti commerciali è fortemente dipendente dalla natura. La Banca centrale europea ha fatto un’analisi per l’Eurozona ed è arrivata al 70-75%. Pensate cosa succederebbe se la biodiversità scomparisse. La crisi finanziaria del 2008 non sarebbe nulla in confronto. Il Rwanda perde circa 25 tonnellate di terriccio coltivabile per ettaro all’anno a causa del degrado del suolo, della deforestazione illegale e della conseguente erosione. È terra che nutre decine di migliaia di persone in un Paese in cui la popolazione già soffre la fame.
È anche vero che preservare e ripristinare la natura, che si tratti di foreste o di ambiente marino, per alcune comunità e attività significa limitare le opportunità di ricchezza. Come se ne esce?
Ci sono trade off, è vero, ma non viviamo in un mondo in cui preservare la natura significa perdere in economia. Prendiamo il Borneo: gli incendi del 2019 hanno fatto perdere mezzo punto percentuale di Pil e hanno esposto 900mila persone a malattie respiratorie, che avranno un costo a lungo termine sull’economia. L’incendio delle foreste ha rappresentato un costo economico, non il contrario. Quello che cerchiamo di fare è aiutare i Paesi a contabilizzare il loro capitale naturale rinnovabile, per assicurarci che possano iscriverlo nei loro bilanci, in modo da poter fare scelte deliberate. Troppo spesso foreste vengono tagliate, aree umide vengono ricoperte, senza capire l’impatto sull’economia a lungo termine. È per un guadagno a breve termine, spesso privato, a scapito della sicurezza pubblica e del guadagno pubblico a lungo termine.
Si discute molto di biocarburanti come alternativa all’elettricità nella mobilità. C’è il rischio che entrino in competizione con l’uso della terra per il cibo?
C’è stata una prima ondata di biocarburanti, 10 o 15 anni fa, e i sussidi hanno tolto spazio alle colture alimentari, in particolare in alcune zone dell’America Latina. Molto preoccupante per il legame con la sicurezza alimentare. Dobbiamo pensare a cosa stiamo incentivando e dove. Molte popolazioni rurali africane rimarranno senza connessione alla rete elettrica almeno fino alla fine del decennio e dipenderanno da un biofuel come il carbone per cucinare, per riscaldarsi, per tutto. Come lo rendiamo sostenibile? Poi ci sono i carburanti sostenibili per l’aviazione, dobbiamo pensare a come non incorrere negli stessi problemi che abbiamo avuto con la prima generazione di biocarburanti. Ma ancora una volta, si tratta di mettere i dati e gli aspetti economici sul tavolo, per assicurarsi i compromessi non finiscano per impoverire persone già povere e mettere a rischio la sicurezza alimentare. Già 750 milioni di persone nel mondo non sanno da dove verrà il loro prossimo pasto, e 49 milioni sono sull’orlo della fame.
I flussi finanziari verso la conservazione e il ripristino della natura impallidiscono rispetto ai 7mila miliardi di dollari annui di sussidi ai combustibili fossili.
1.500 miliardi di dollari sono sussidi diretti, altri 5.500 sono i costi economici e ambientali di questi sussidi diretti, che non hanno più lo scopo prefissato. Molte sovvenzioni per l’agricoltura sono per i fertilizzanti: per ogni aumento del 10% di fertilizzanti usati, si ottiene meno del 2% di aumento della produzione alimentare. Invece, aumentano in modo enorme malattie e decessi, perché quando l’azoto finisce nell’aria, nel suolo e nell’acqua, avvelena le persone. Noi non vogliamo togliere i sussidi. Le sovvenzioni all’agricoltura ammontano a circa 700 miliardi di dollari l’anno. Solo un terzo finisce nelle mani degli agricoltori. Vogliamo che gli agricoltori continuino a ricevere queste somme, perché tagliarle all’improvviso potrebbe costringere un agricoltore che riesce a sopravvivere a vendere la terra e trasferirsi in città. Invece di dare soldi, ad esempio, per i fertilizzanti, perché non darli per fare cose che saranno utili per gli agricoltori, ma anche per il clima e la natura. È qui che pensiamo che si possa iniziare a cambiare l’uso di questi 1.500 miliardi di dollari e farli diventare parte della lotta per la biodiversità invece che contro di essa.