Le videolezioni vanno bene in questa fase di emergenza. Ma i saperi profondi non si trasmettono soltanto con la parola
Spero che nessuno dimenticherà il sacrificio, non solo contrattuale e sindacale, che la scuola dell’emergenza si sta sobbarcando in questi mesi. Unico antidoto ai social, essa ha dovuto rapidamente impararne il linguaggio, accettare una lunga suspension of dignity, infliggersi il gioco a guardie-e-ladri con allievi che sfuggono o copiano, si collegano e scollegano, facendosi beffe dell’insipienza informatica degli adulti, dei boomers, spesso peraltro immaginaria. Scattato il blocco, i professori hanno reagito in maniera fulminea e sincrona, senza aspettare imbeccate dall’alto. Si sono attivati con i mezzi che avevano – Skype, Zoom e quant’altro – e hanno salvato quello che si poteva salvare del quadrimestre appena iniziato. È stata una grande prova di forza e di vitalità, di coscienza civica, di etica professionale. Sia chiaro perciò che – pur con le eccezioni, i buchi neri, le furbizie immancabili – la classe docente ha fatto e fa miracoli.
Ma sia chiaro anche che la scuola non è questa. Le videolezioni vanno bene per qualche materia che finisce in -gìa, funzionano con chi è già imparato, per chi già sa. Non funzionano invece con le hard skills, con i saperi profondi, che si trasmettono non solo con la parola ma anche attraverso il contatto, la prossemica, lo sguardo. A nulla serve la didattica da remoto quando non si tratta di intonacare i muri bensì di gettare le fondamenta, forti, durature. Perché insegnare, come direbbe il professor Franzò, non è insegnare, ma insegnare a capire se hai capito. E a tale scopo occorre vedere quella luce che brilla, quella palpebra che batte, quella fronte che si increspa.
Solo allora riesci a dire se il transfert è avvenuto. Non sto facendo letteratura, o retorica a buon mercato. Gli addetti ai lavori mi intendono. Essi sanno bene che solo in presenza è possibile giudicare quali semi daranno frutto e quali si perderanno nel vento. È una lezione antica: Platone diceva che occorre lunga frequentazione fra maestri e allievi perché la fiamma più grande arrivi a far sprizzare una scintilla nella coscienza altrui e ad alimentarla.
L’anno 2020 è andato, facciamocene una ragione. Esami e scrutini saranno una pantomima, un trionfo del liberi tutti. Ma non è del 2020 che dobbiamo preoccuparci, bensì degli anni che seguiranno, poiché c’è da scommettere che in questo momento qualcuno sta facendo i suoi conti su quanto si risparmierebbe mandando cinque professori su dieci a cuocere hot dog, mettendone uno solo a sdottorare per tutti da dietro una telecamera e usando i rimanenti come carne da sportello, impegnati in un baby-sitting h24. Dopotutto i professori hanno tanto tempo libero, tante vacanze, e se durante l’emergenza hanno fatto lezione anche di pomeriggio e di sabato e nelle feste comandate, nulla vieta che possano farlo sempre. Ditemi se trovate assurda questa scena: agosto in catamarano, tardo pomeriggio, mamma che prepara gli spritz, figlio che si collega in videolezione col professore che lo ha rimandato e che gli parla da una spiaggia sgalfa da gruppo Tnt. Quanti piccioni con una fava sola: disinnesco delle ripetizioni a pago, estati senza vincoli di spostamento, tocco vintage del docente retrocesso a precettore, spettacolo sempre appagante del pubblico impiego punito: così l’anno dopo ci penseremo due volte prima di rimandare. Quadretto di fantasia? Chissà. Certo è che con il virus il sistema-Paese è andato in blocco e che i primi rimedi per rimetterlo in moto saranno quelli già visti durante la crisi 2008-2011: turismo e circensi. L’inqualificabile proposta che si fece in quegli anni – riprendere la scuola a ottobre per allungare le vacanze degli italiani facendoli spendere di più – dimostrò che gli albergatori, i ristoratori, i pabulatori della notte e gli operatori della movida erano già fra i più influenti stakeholders della scuola. Se il processo si compirà, l’istruzione scenderà ancora nell’ordine delle priorità sociali e non si potrà che puntare sul teach-away, sull’istruzione alla spina, da sistemare alla meglio fra l’apericena e una seduta di pilates.
La campagna pubblicitaria è già cominciata. Qualcuno vuole darci a intendere che il virus ha aperto nuove vie per la scuola, nuovi orizzonti, che tanto piacciono sia ai padroni del silicio sia a chi occupa cariche politiche, amministrative, accademiche. E così già si profila per la scuola l’ennesima sfribrante battaglia: dover dimostrare che opporsi alla trasformazione dell’emergenza in normalità non significa essere misoneisti, giapponesi attardati nella giungla, nemici delle nuove tecnologie. È una battaglia che vinceremmo, se gli uomini di scuola marciassero uniti, licei, università, tutti. I ragazzi sono con noi, nessun dubbio su questo. Eppure il nuovo verbo conquista e fa proseliti. Già si infoltisce la falange dei colleghi «responsabili», dei collaborativi, di quelli che se l’istituzione ti chiede un passo, loro pedalano fino a Pinerolo, e che, con il tono intimo-casual dei rispondi-a-tutti non richiesti, con l’ottimismo trillante e la freshness di chi sa che domani si troverà dalla parte giusta, ti spiegano che con questa didattica a distanza in fondo non si stanno trovando male, anzi bene, anzi meglio di prima: una meraviglia, un traguardo, altro che un ripiego. E magari, per parafrasare Pavese, non lo fanno per opportunismo, bensì sono così furbi da crederci davvero.