Fonte: Corriere della Sera
di Donatella di Cesare
Le frontiere si chiudono per quegli stranieri che sono più stranieri di altri: i poveri
Le parole non sono indifferenti. Decidono la politica. Soprattutto quando si tratta della cosiddetta «crisi migratoria». Il tema, si sa, accende gli animi. Anche per ciò abbondano i luoghi comuni, mentre la complessità resta sullo sfondo. In nome dell’esigenza di «ridurre gli sbarchi», si è affermata così la distinzione tra rifugiati e migranti che in breve è diventata criterio selettivo: i primi possono entrare, gli ultimi vanno respinti. Da una parte i buoni, dall’altra i cattivi, da una parte i veri, dall’altra i falsi. Il migrante che tenta di passare per rifugiato è il «clandestino».
Ma ha davvero senso questa distinzione? Il «rifugiato» può vantare un passato glorioso. Viene dalla schiera degli esiliati, apolidi, proscritti che non sono mai mancati nella storia. Pur tra ambiguità, il rifugiato assume un significato più preciso tra le due guerre mondiali. Indica lo straniero che, lasciato il proprio Paese, chiede protezione allo Stato in cui giunge. Il prototipo del rifugiato è l’esule russo, vittima della rivoluzione, che trova spazio in tante pagine della letteratura. Questa figura è destinata a lasciare un’impronta nell’immaginario collettivo. Ben diversamente vanno le cose per gli italiani che fuggono dal regime di Mussolini. Accanto all’«esule russo» non nasce la categoria del «rifugiato italiano». Per non parlare degli ebrei tedeschi che devono aspettare fino al 1938 per essere riconosciuti come profughi dai Paesi occidentali.
La svolta è segnata dalla Convenzione di Ginevra che il 28 luglio 1951 definisce il rifugiato mettendo l’accento sulla «persecuzione». Sembra così rompere con il passato, perché non parla più di un gruppo, bensì del singolo che chiede protezione. Eppure ha la meglio la continuità: il rifugiato non è che il calco del dissidente sovietico. Con la vittoria del blocco occidentale prevale la difesa dei diritti civili sulla tutela contro le violenze economiche. Fame e povertà restano cause perdenti. Ma perché mai i motivi economici dovrebbero essere meno gravi di quelli politici?
I rifugiati sono i dissidenti che suscitano simpatia, accendono la solidarietà: cecoslovacchi, greci, cileni, argentini. Tutto cambia quando compare un nuovo rifugiato: meno bianco, meno istruito, meno ricco. È il «migrante», termine che, al contrario di «rifugiato», non corrisponde a una categoria giuridica. In poco tempo assume contorni negativi e inquietanti. La governance burocratica lo ferma, gli chiede una «prova» della sua persecuzione, ne fa tutt’al più un «richiedente asilo».
Le frontiere si chiudono per quegli stranieri che sono più stranieri di altri: i poveri. Colpevoli già solo per essersi mossi, non suscitano alcuna compassione. Anzi! I persecutori potrebbero essere loro, questi «nemici subdoli». Eppure i migranti, questi nuovi poveri cui è stata tolta persino la dignità del povero, hanno mille motivi da far valere per quella loro scelta sofferta. L’Unhcr parla già da anni di «flussi misti» per indicare i migranti che fuggono da guerra, violenza, fame, siccità. Con questa formula già si ammette l’impossibilità di applicare schemi antiquati. Nel mondo globalizzato la persecuzione ha molti volti. Come distinguere in un groviglio di motivi che s’intrecciano?
La distinzione tra rifugiati politici e migranti economici non regge. Sarebbe come sostenere che l’impoverimento di interi continenti non abbia cause politiche. Sfruttamento, crisi finanziarie, catastrofi ecologiche non sono meno rilevanti della minaccia personale. Questo criterio antistorico non può essere criterio per una politica della migrazione. Anche da qui si deve ricominciare.