Fonte: Corriere della Sera
di Federico Fubini
All’inizio l’euro doveva essere il terreno di sfida di questa campagna elettorale, poi invece per qualche tempo è parso che tutto si sarebbe giocato sull’immigrazione. Dopo ancora, sembrava che si potesse vincere o perdere solo sulle banche. Alla fine però, in un riflesso vecchio di quarant’anni, i partiti sono tornati a giocarsi il futuro proprio e soprattutto quello del Paese su un tema che conoscono a memoria: la finanza pubblica.
È quella la pista sulla quale si sta correndo la gara del 2018 e in fondo non ci sarebbe nulla di nuovo: lì si sono combattute la maggior parte delle competizioni elettorali almeno dalla fine degli anni 60, quando l’Italia completò la sua rincorsa diventando un sistema industriale come gli altri, e il debito iniziò a esplodere più di quello di tutti gli altri. Come allora, in modo molto poco originale, le promesse di ogni genere si stanno affastellando le une sulle altre. Naturalmente però la differenza rispetto agli anni 70 o 80 però c’è, perché oggi l’Italia si muove in un contesto del tutto nuovo.
Il debito è ai massimi di sempre; esistono l’euro, le regole europee e la sorveglianza di Bruxelles; e i conti del bilancio tornano solo perché l’azione della Banca centrale europea tiene bassi i tassi d’interesse. Vale dunque la pena ricordare dove ci eravamo lasciati, su questo fronte: in novembre la Commissione europea aveva evitato di censurare l’ultima legge di bilancio italiana solo dopo aver mandato al governo una lettera molto circostanziata.In quel testo il vicepresidente Valdis Dombrovskis e il commissario Pierre Moscovici ricordano che l’Italia avrebbe dovuto correggere il disavanzo di 0,6% del reddito nazionale — al netto degli effetti temporanei — ma le è stato concesso di limitarsi allo 0,3% in base ai criteri di «flessibilità». Il problema è che neanche questo 0,3% sarebbe stato ottenuto perché, secondo la Commissione, il calo del deficit per il 2018 risulta appena dello 0,1%.
La partita dei conti pubblici del 2018 dunque non è chiusa e quella lettera crea le premesse perché verso fine aprile Bruxelles chieda una manovra correttiva da tre o quattro miliardi: più tasse o nuovi tagli di spesa. Niente di tutto questo è già stato deciso, ovviamente, perché andranno studiati i consuntivi del deficit e del debito 2017. Ma se la richiesta di una manovra arrivasse, non ci sarebbe niente di strano: sarebbe la terza volta in cinque anni che la Commissione Ue impone all’Italia un aggiustamento dei conti in corso d’anno.
Nuovo invece sarà il quadro politico che deve affrontare le prossime scadenze europee dopo le elezioni, perché agli elettori è stato promesso tutt’altro. Entro metà aprile il governo — chiunque ne faccia parte — dovrà mandare a Bruxelles un piano triennale di risanamento, che per il momento include per legge aumenti dell’Iva da 19 miliardi di euro sull’anno prossimo e quello seguente. Poi entro fine aprile lo stesso governo potrebbe ricevere appunto la richiesta di far passare in Parlamento in estate la manovra correttiva da tre o quattro miliardi. E anche se la Commissione europea chiudesse un occhio per adesso, in settembre andrà varata una nuova legge di bilancio sulla quale incombono i primi dieci miliardi di aumenti automatici dell’imposta sui consumi. Bisogna dunque vedere se quella clausola di aumento dell’Iva verrà disinnescata, con quali altri sacrifici sarà sostituita o se si lascerà aumentare il deficit contro tutte le regole e le indicazioni di Bruxelles.
Se questi sono gli impegni, proviamo a immaginare a chi dovrebbe affrontarli. Sondaggi alla mano, i casi sono tre: una «grande coalizione» fra moderati di centrodestra e di centrosinistra, o una coalizione di centrodestra che includa un’area sovranista e anti-euro, oppure una coalizione «anti-sistema» in gran parte avversa alle liturgie europee. Nel primo caso — grande coalizione — il resto del mondo politico scaricherà sui moderati la colpa di ogni euro di risanamento del bilancio, soffierà sul fuoco dell’antieuropeismo e punterà a capitalizzare consensi grazie a questo. In una coalizione di centrodestra è destinata a esplodere la conflittualità interna sul rapporto con l’Europa. E con una coalizione anti-sistema è destinato a deflagrare il conflitto con il resto dell’area euro.
In nessun caso si tratta di scenari rassicuranti, a maggior ragione nel calendario politico europeo dei prossimi mesi. In primavera entra nel vivo il negoziato per ridisegnare gli ingranaggi di governo dell’area euro, la sorveglianza di bilancio e le regole sulle banche: le lacerazioni interne al governo e una nuova stagione di scontri con Bruxelles — dove si è sempre meno disposti a sconti e trattamenti di favore — possono solo relegare l’Italia ai margini del confronto. A settembre o a dicembre poi la Bce smetterà di creare sempre nuovi euro per comprare titoli di Stato.
Insomma non è il momento adatto per trattare gli elettori come bambini. Non solo perché non lo sono. Una campagna elettorale più matura può anche far comodo agli stessi partiti dopo, quando ci sarà comunque da rimboccarsi le maniche.