4 Dicembre 2024

Le spine di Bruxelles: si insedia la nuova Commissione Ue ma attenzione ai contrasti intestini nel Parlamento

In Europa, la nuova Commissione Ue inizia il suo mandato in un contesto e in un clima politico che non hanno precedenti. Da un lato, la situazione internazionale è impervia e dall’altro, ha deluso il risultato del voto per la sua approvazione al Parlamento europeo. Alla luce di questo e delle cronache successive alle elezioni Ue del giugno scorso, è utile una breve riflessione di prospettiva. Va sottolineato subito che, nella complessa architettura istituzionale dell’Unione europea, un fecondo rapporto fra Parlamento e Commissione può diventare la chiave di volta operativa del sistema, perché soddisfa i canoni della democrazia rappresentativa e serve a bilanciare – almeno in parte – il peso dei governi degli Stati membri che sono protagonisti (con i rispettivi ministri) al Consiglio Ue, dove spesso si delibera all’unanimità.
Il sostegno del Parlamento al varo della Commissione si è manifestato con la percentuale più bassa di sempre: la maggioranza a favore c’è, ma è risicata, fragile ed evidenzia una debolezza che accomuna entrambi gli organismi. Anzi, il Parlamento appare in ambasce peggiori, dato che molti gruppi politici si sono platealmente divisi al loro interno, a cominciare da quelli che, nella consolidata tradizione, rappresentano la spina dorsale dell’assemblea (Popolari e Socialisti). Ne è scaturita un’aggregazione con numeri incerti, priva dei connotati di una maggioranza stabile. Lo provano sia le acrobazie argomentative di chi afferma che esista, sia il protrarsi di polemiche intestine.
Colpisce anche la genericità del documento congiunto che in extremis ha evitato la rottura netta fra coloro che avevano appoggiato, a luglio, la presidente von del Leyen: ha una veste formale vaga e non configura un’effettiva risoluzione maggioritaria su un programma concordato.
L’esito singolare è dipeso, principalmente, dall’intrecciarsi di due dinamiche, non nuove, ma mai tanto visibili. Per un verso, i gruppi parlamentari Ue hanno pagato le rivalità e le liti fra partiti nell’ambito domestico di parecchi Paesi, acuite dalle fasi pre-elettorali e/o da difficoltà per il locale esecutivo (Francia, Germania e Spagna offrono variopinte antologie). Per l’altro verso, si è assistito a ripicche, ritorsioni e a poliformi manovre non rare fra chi fa politica, ma devastanti nelle fasi cruciali.
La prima dinamica, in particolare, è assai insidiosa per la credibilità dell’ordinamento dell’Unione agli occhi di noi cittadini. Infatti, mina i cardini della filiera democratica conclamata dai trattati base: il nostro suffragio per esprimere un Parlamento europeo davvero sovrannazionale, che sia il garante dell’insediamento di un collegio di commissari genuinamente indipendenti e il più possibile svincolati dall’influenza dei governi dei vari Stati. Adesso, il dubbio contrario graverà sulla Commissione, accentuando sospetti già alimentati da una radicata aneddotica maliziosa.
Con intenti edulcoranti, guardando all’esperienza passata, molti enfatizzano che al Parlamento Ue le maggioranze sono spesso mutevoli quando, nel suo preminente compito di legislatore, delibera sui provvedimenti specifici. C’è del vero, però va detto che, salvo episodiche eccezioni, il ruolo determinante è comunque assunto dal medesimo nucleo abitualmente alleato e gli altri si aggiungono. Inoltre, puntare su schieramenti volubili di deputati disegna scenari da «trasformismo» inappropriati per le scelte e le grandi sfide che l’Unione ha davanti e che pur includendolo, travalicano il lavoro normativo.
Si devono affrontare i temi che ci inquietano (difesa e sicurezza, tutela dell’ambiente e della salute, tecnologie e fonti di energia, impatto delle migrazioni, crescita economica e giustizia sociale) e per farlo occorre una motivazione che può scaturire solo da una condivisione politica solida. Il quadro non rincuora. Naturalmente, è necessaria una convergenza fra gli Stati Ue e per ottenerla bisogna giostrare fra i diversi governi, ma non è semplice, anche perché cambiano sovente e creano geometrie a stento gestite dai grandi leader, sempre che ci siano. Il Parlamento europeo, invece, ha il pregio di essere inamovibile per cinque anni: se trova una maggioranza coerente e durevole, può muoversi in sinergia con la Commissione e aspirare a condizionare il Consiglio.
Per questa ragione allarma il responso frastagliato di qualche giorno fa: in un Parlamento fluido e per giunta disarticolato in seno ai suoi gruppi, le contrapposizioni potenziali aumentano e soprattutto, sono imprevedibili. Ne deriva che trovare compromessi validi per le decisioni è più arduo, così come si fa problematico ambire ad avere un significativo ascendente politico. Esagerate oscillazioni possono persino imbrigliare i meccanismi e tradursi in deprecabili stalli dell’Unione.
Infine, c’è un’ulteriore eventualità che discende da un’acuminata disposizione dei trattati Ue: la mozione di censura, la facoltà del Parlamento di obbligare l’intera Commissione a dimettersi. Un’assemblea priva di maggioranza coesa, con equilibri variabili potrebbe fibrillare e confluire sul voto di sfiducia, eccependo qualche giustificazione. Non sfugge che una simile, più concreta spada di Damocle può demoralizzare i commissari e dunque, frenare l’efficacia dell’organismo che nell’Unione ha il monopolio della proposta legislativa e svolge una parte rilevante della funzione esecutiva.

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