Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Chiunque governi, il nostro interesse nazionale è di gran lunga meglio servito restando dentro le regole dell’Unione e nel mercato comune più grande del mondo; nei sondaggi gli italiani mostrano di averlo capito benissimo
Se il più forte governo sovranista del continente deve accettare un negoziato fino all’ultimo centesimo con una Commissione debole perché ormai alla fine del mandato, allora vuol dire che il nostro destino in Europa è davvero ineluttabile. La manovra del popolo è stata scritta al telefono con Bruxelles, mentre il Parlamento sovrano aspettava di riceverla per motociclista sotto forma di maxi emendamento, prendere o lasciare. Se sono vere le versioni che danno per chiuso l’accordo, verrebbe da domandarsi perché non l’abbiamo fatto prima, risparmiandoci tre mesi sull’ottovolante dello spread, e il pagamento dei relativi interessi. Tanto era chiaro che anche stavolta non potevamo rispondere all’Europa «me ne frego».
Perché? La risposta più semplice è: perché ne facciamo parte. Siamo cioè legati da una tale trama di convenienze comuni che se si strappa anche un solo filo l’intero tessuto nazionale rischia di slabbrarsi come un vecchio maglione. Facciamo parte dell’Europa perché altrimenti il nostro debito ci costerebbe troppo. Facciamo parte dell’Europa perché tutti i nostri commerci si svolgono nella Ue o secondo regole negoziate dalla Ue.
E facciamo parte dell’Europa perché dalla solidità della moneta comune che portiamo in tasca dipende il valore dei nostri salari e dei nostri risparmi. Sul piano politico questo legame funziona talvolta come una specie di freno automatico quando alla guida c’è un autista distratto, incapace o pericoloso: il nostro governo, per esempio, ha appena votato a favore delle proroghe delle sanzioni alla Russia e della missione Sophia, contro le quali fino a ieri tuonava. Ma, allo stesso tempo, l’interdipendenza ci aiuta: la crisi francese e il caos inglese hanno reso certamente più conveniente per Bruxelles e più agevole per noi raggiungere un accordo sul bilancio.
C’è però anche un’altra ragione — più difficile a dirsi — per cui dovremo congratularci con il nostro governo per aver accettato il compromesso, e in particolare con il premier Conte e i ministri Tria e Moavero, che hanno svolto la parte più efficace del negoziato. E questa ragione è che il «vincolo esterno» dell’Europa — secondo la felice intuizione di Guido Carli — ci difende anche da noi stessi. Ci protegge innanzitutto dai nostri politici, gli attuali e i predecessori, che sempre hanno la tentazione di spendere qualche miliardo mettendolo sul conto dei contribuenti. E ci protegge anche dal prevalere della legge del più forte, da quel coacervo di egoismi, corporativismi e clientelismi che tendono a dirottare risorse a scapito dell’interesse generale. Potrà sembrare un paradosso dirlo di questi tempi: ma la regole comuni dell’Unione ci difendono anche dalla ingordigia di certe élite alle vongole.
Dunque, chiunque governi, il nostro interesse nazionale è di gran lunga meglio servito restando dentro le regole dell’Unione e nel mercato comune più grande del mondo; nei sondaggi gli italiani mostrano di averlo capito benissimo, e l’hanno fatto capire anche a chi li rappresenta, mitigandone le illusioni autarchiche. Mi sbaglierò, ma il governo giallo-verde ha cominciato a cambiare strada sulla manovra dopo che l’asta dei Btp Italia, destinata alle famiglie, è andata male.
Sarebbe però un errore concludere che i vertici europei siano un pranzo di gala dove a noi spetti solo di comportarci educatamente. Sono piuttosto un’arena nella quale si confrontano 27 interessi nazionali diversi e talvolta divergenti. Ma, proprio per questo, bisogna selezionare gli obiettivi che si intende raggiungere e costruire alleanze per ottenerli. Agitare i pugni non solo è inutile, come dimostra la vicenda del deficit al 2,4% annunciato da un balcone; ma è anche controproducente, se genera isolamento. Mentre minacciavamo sfracelli sulla manovra, per esempio, abbiamo dovuto incassare in silenzio due duri colpi al nostro interesse nazionale: l’ennesimo rinvio della garanzia europea sui depositi bancari, e la sepoltura definitiva del programma di ricollocazione all’interno della Ue dei rifugiati arrivati in Italia e in Grecia.
Accettando di chiudere la trattativa sugli zerovirgola, il nostro governo fa cadere anche l’alibi di chi dice che è l’Italia il problema dell’Europa. Non è così. L’Unione è corrosa da un male molto più profondo. A trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, lo scambio tra l’unificazione tedesca e il marco tedesco, che portò alla nascita dell’euro, non ha prodotto l’Europa che speravamo. La convergenza economica e politica delle periferie verso il centro carolingio non ha funzionato ovunque, e la querelle sul deficit italiano è parte di questa divergenza. Così oggi di Europe ce ne sono almeno tre: quella del rigore nordico, quella indisciplinata e mediterranea, e quella illiberale che sta sorgendo a Oriente. Se c’è qualcuno al governo che ha davvero voglia di dar battaglia per costruirne una nuova e migliore, l’occasione è d’oro. Ma prima bisognava mettere fine alle battaglie sbagliate, e perse in partenza.