Fonte: Corriere della Sera
di Francesco Verderami
I vincitori delle Amministrative sono finiti prigionieri di un teorema che sembra ribaltarsi e rischia di annichilirli
La fragilità del sistema politico è tale che basta poco perché gli equilibri cambino. E infatti sono bastati due mesi per invertire la tendenza: l’estate che era iniziata offrendo l’immagine di un nuovo bipolarismo imperniato sul duello Renzi—Di Maio, va chiudendosi con il premier che torna ad apparire come l’uomo senza alternative. Certo il leader del Pd si è progressivamente indebolito, l’aura del rottamatore è stata intaccata dagli eventi, dalle difficoltà di governo, sfruttate dagli avversari esterni e soprattutto interni al suo partito, che ormai mostrano pubblicamente di volerlo rottamare.
Questa strategia di logoramento e accerchiamento faceva (e fa tuttora) perno sulla forza d’urto dei Cinquestelle. Ma i vincitori delle Amministrative sono finiti prigionieri di un teorema — se sapranno governare Roma sapranno governare l’Italia — che sembra ribaltarsi. E che rischia di annichilirli. La crisi del Movimento potrà anche essere momentanea, però è stato sufficiente a modificare la geografia politica. È da vedere se tutto ciò inciderà nel Palazzo e nel Paese, perché quel blocco sociale ostile all’establishment — radicato peraltro in tutto l’Occidente — prescinde dal grillismo. Anche se in Italia è il grillismo a rappresentarlo.
E dunque, al fixing attuale, la partenza fallimentare della giunta Raggi in Campidoglio potrebbe influire persino sul risultato referendario: magari non si assisterebbe a uno spostamento di voti dal No verso il Sì, ma basterebbe che un pezzo di elettorato grillino deluso trasmigrasse verso l’area dell’astensionismo, per avvantaggiare Renzi e la sua riforma costituzionale. Non a caso l’approccio del premier alla crisi di M5S è scevro di accenti polemici: serve a conquistare consensi in vista della consultazione popolare, o quantomeno a spostarli su posizioni meno intransigenti.
Le difficoltà dei grillini hanno riflessi anche sulle manovre in Parlamento, riducono i margini d’azione di quanti puntavano (e puntano) sulla sconfitta del referendum per sostituire il presidente del Consiglio nello scorcio finale della legislatura: è il «governo della Bicamerale», che il leader del Pd ha evocato parlando dell’intesa tra D’Alema e Berlusconi. Il progetto, di per sé complicato, appare allo stato irrealizzabile per effetto del «caso Roma», perché dentro M5S è finita sotto accusa l’area guidata da Di Maio, che stava tentando di dare un volto istituzionale al Movimento.
Nei mesi scorsi il vice presidente della Camera aveva detto che — in caso di crisi di governo — i grillini avrebbero «rispettato le decisioni del capo dello Stato», accreditando l’idea di un «patto di non aggressione» verso chi mirava (e mira) al cambio di premier e di governo, prefigurando così un tipo di opposizione inflessibile ma non barricadera. Il «caso Roma» cambia però i rapporti di forza nel Movimento. E lo spostamento verso una linea se possibile più radicale — anche in ambito parlamentare — innescherà una competizione con gli altri partiti di opposizione, a partire dalla Lega. A quel punto Forza Italia — semmai puntasse davvero al «governo della Bicamerale» — sarebbe costretta ad abbandonare i propositi di larghe intese per non correre il rischio di spaccarsi ulteriormente.
È il default di sistema che induce tanto le Cancellerie internazionali quanto il mondo delle imprese e del lavoro a propendere per un appoggio a Renzi, restituendolo — seppur sbiadito — al ruolo dell’uomo senza alternative. È il timore del caos che spinge (anche) a sostenere il fronte del Sì al referendum. D’altronde oggi le riforme costituzionali sono vissute — per effetto del gioco mediatico — come un rifugio dei conservatori, mentre il voto contrario incarna l’idea del voto anti-sistema. Sarà un paradosso, ma per il premier entrato in scena con l’immagine dell’innovatore è oggi un ancoraggio da sfruttare nel Paese.
Nel Palazzo, invece, Renzi cerca di riprendere vantaggio facendo leva sulla modifica dell’Italicum, annunciando che è pronto a cambiarlo «se in Parlamento ci saranno i numeri». Ma i numeri in Parlamento li ha il Pd, di cui Renzi è il leader, perciò la furbizia tattica è presto smascherata: tocca al premier e segretario dei Democratici innescare il processo politico e incardinare l’iniziativa a livello parlamentare, se davvero vuole ritoccare la legge elettorale «anche senza l’intervento della Corte Costituzionale». In caso contrario, specie se la Consulta non dovesse agire, sarebbe chiaro che si è trattato di un espediente, di una mossa dettata dalla contingenza. Ma la fragilità del sistema è tale che basta poco perché gli equilibri tornino a cambiare. E il fixing di oggi non è detto che resti stabile.