Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Lo spettro di una gara elettorale tra tre populismi, paventato dal Corriere alcuni
mesi fa, si è materializzato l’altra sera a Montecitorio. La mozione del Pd, che impegnava il governo a una scelta sul vertice della Banca d’Italia nella quale il Parlamento non ha poteri, aveva lo stesso identico obiettivo delle mozioni dei Cinque Stelle, della Lega e dei Fratelli d’Italia: liberarsi di Ignazio Visco, per metter al suo posto qualcuno più «idoneo» — era scritto così — o più amico. L’attacco alla sezione italiana della Banca centrale europea — perché questo oggi è la Banca d’Italia — si faceva d’altronde forte di uno dei tratti tipici del populismo: individuare un capro espiatorio per le cose che non hanno funzionato, e darlo in pasto al pubblico. Non si può onestamente escludere che l’attività di vigilanza e prevenzione delle crisi bancarie sarebbe potuta essere in questi anni migliore e più rapida. E del resto oggi i Governatori non sono più a vita proprio perché se ne possa giudicare l’operato ogni sei anni. Ma le cose non stanno come la vulgata populista racconta.
Per esempio: Renzi ha spesso rivendicato al suo governo il merito di aver commissariato Banca Etruria senza guardare in faccia a nessuno, cioè al padre dell’allora ministro Boschi. Ma non ha mai aggiunto che fu l’ennesima ispezione di Banca d’Italia a rivelare il marcio di Arezzo e a richiedere il commissariamento. Così come tutti quelli che oggi se la prendono con la normativa europea del «bail in» considerandola la radice dei nostri problemi bancari, sonnecchiavano beati nel 2013 quando fu solo la Banca d’Italia a segnalare per iscritto i rischi di una introduzione troppo repentina e retroattiva di quelle regole, senza che l’Italia riuscisse a far passare questa tesi in Europa. Ma lasciamo perdere. Non è questo il punto di quanto è accaduto. Il punto è che il partito che guida il governo, ed esprime la gran parte dei ministri, gli ha teso un agguato parlamentare, senza neanche informarlo prima, tranne pare il sottosegretario Boschi, creando così una tensione senza precedenti con il Quirinale. Il quale giustamente si preoccupa di difendere l’autorità e la credibilità del sistema che tutela i risparmi degli italiani, e le prerogative di una scelta che compete al capo dello Stato. Per far perdere la pazienza a Mattarella ce ne vuole, ma il Pd stavolta ci è riuscito.
Ieri poi Renzi ha ribadito di averlo fatto proprio per prendere le distanze dalle scelte che il governo Gentiloni si appresta a fare su Banca d’Italia, addossandogliene la responsabilità: fate quello che volete, è il suo messaggio, ma si sappia che non è in mio nome. Come se quello di Gentiloni non fosse più, ammesso che lo sia mai stato, il governo del Pd, il quale evidentemente non ne può avere uno davvero suo se non è presieduto da Renzi. E come se, di conseguenza, la campagna elettorale già cominciata avesse liberato le mani del Pd da ogni responsabilità di governo. Magari portando ora l’attacco ieri fallito a Visco nella Commissione d’inchiesta sulle banche.
Il punto è questo: il partito di maggioranza, che sostiene il governo, non può fargli l’opposizione, è tenuto a una responsabilità comune, di collaborazione leale tra le istituzioni, soprattutto quando le decisioni riguardano un Istituto la cui indipendenza è cruciale, perché è chiamato a tutelare gli interessi dei risparmiatori, e abbiamo visto che fine fanno le banche quando finiscono in mano ai politici e alle loro consorterie locali. La sinistra democratica in Italia, fin dai tempi dell’Ulivo, ha fatto della responsabilità fiscale e finanziaria il suo vangelo, in un Paese le cui sorti nazionali dipendono dall’immane e potenzialmente devastante debito pubblico che ha accumulato, e non possono essere subordinate alle tentazioni demagogiche ed elettorali. Qualche volta le sarà costato qualche voto, ma forse è anche questa la ragione per cui non è scomparsa sotto i colpi della crisi come praticamente in tutto il resto d’Europa, e Renzi dispone oggi di un patrimonio di voti ancora rilevante, più o meno analogo peraltro a quello che gli è stato lasciato dai suoi predecessori. Giocare Bankitalia sul tavolo elettorale è pericoloso. Già le imminenti elezioni porteranno con sé un elevato grado di incertezza politica, e Dio solo sa se dopo il voto questi partiti un governo sapranno formarlo. Mettere anche in discussione il bene primario della stabilità, che stava dando a questo governo i primi frutti in termini di crescita economica, restituire l’immagine di un Paese in cui anche le principali autorità di vigilanza sono ostaggio di una lotta politica perenne e senza quartiere, e tutto può cambiare a ogni vento elettorale, è la ricetta migliore per ripiombare l’Italia nel tutti contro tutti da cui siamo da poco usciti, e di rimetterla nel mirino della speculazione internazionale. Un atteggiamento oltretutto autolesionista, perché sulla rovina comune nessuno può guadagnare, meno che mai chi si candida a guidare il Paese.