Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Di Maio ha delegato la decisione sull’autorizzazione a procedere alla piattaforma Rousseau. C’è un solo precedente storico, e allora la folla dette la risposta sbagliata
Doveva essere, più o meno, il 6 aprile del 33 dopo Cristo. Un giovedì sera. Il precedente più celebre in cui il potere politico si sia rivolto a una piazza per chiederle di emettere un verdetto giudiziario. Quella volta finì male: la gente diede la risposta sbagliata. Naturalmente sarebbe improprio ogni paragone tra Matteo Salvini e ciascuno dei due imputati del tempo: il ministro dell’Interno non è, con tutta evidenza, né un Cristo né un Barabba. Più calzante invece potrebbe apparire una similitudine tra Luigi Di Maio e Ponzio Pilato. E non solo per l’ovvia considerazione che il leader, come il prefetto romano della Giudea, intende lavarsi le mani della sua responsabilità politica rivolgendosi alla folla, nel nostro caso alla platea degli iscritti alla piattaforma Rousseau. Ma anche perché, proprio come nel caso di Pilato con Gesù, Di Maio parteggia per l’imputato però non ha il coraggio di dirlo chiaro e tondo, e spera che qualcuno gli tolga le castagne dal fuoco tra le 10 e le 19 di oggi, con un click.
Se infatti si legge il quesito posto dai vertici del Movimento alla base, un corpo mistico di qualche decina di migliaia di «registrati», è chiaro che si deve votare no. Cioè, sì. Perché la domanda è posta in modo tale che se vuoi salvare Salvini devi dire sì, non al processo, ma al fatto che il ministro si è mosso nell’interesse pubblico. Mentre se lo vuoi mandare a processo, devi votare no, non si è mosso nell’interesse pubblico. Un contorcimento che ricorda da vicino il 2,4% di deficit che diventa 2,04% per ingannare il pubblico, e che ha fatto ridere perfino un comico come Beppe Grillo, che l’ha definito una cosa a metà tra il Comma 22 e la sindrome di Procuste, qualsiasi cosa significhi.
Ma è lo spiegone che precede la domanda a suggerire la risposta giusta auspicata dai leader: quella dei 137 migranti sulla Diciotti (in realtà erano 177, sarà un errore di stampa) era solo un «ritardo», non un sequestro, mentre il ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio non trovavano qualche Paese europeo in cui spedirli. E Salvini non ha agito per «tornaconto privato» ma «nell’esercizio delle sue funzioni». E questa è la prima volta che la magistratura chiede al Parlamento una cosa del genere, eccetera eccetera.
Insomma: Di Maio e i suoi vogliono salvare Salvini, perché vogliono salvare il governo e se stessi. E questo è un obiettivo legittimo, e perfino logico. Ma se quello che dicono è vero, ed in linea di massima lo è (salvo sbagliare il nome della «giunta per le immunità», che forse suonava male per chi ha scritto nel programma elettorale che avrebbe votato sempre contro ogni immunità, e dunque è stata trasformata in «giunta per le autorizzazioni»), allora non si capisce perché i Cinque Stelle chiedano a Rousseau ciò che già sanno. E d’altra parte, se vogliono invece evitare di prendere una posizione politica su un caso che in effetti è giudiziario, non si capisce perché non si affidino alla coscienza dei parlamentari che hanno designato nella giunta suddetta, e che nella fattispecie dovrebbero agire come giudici, senza farsi condizionare da nessuna valutazione di carattere extragiudiziario.
Qui infatti la democrazia diretta non c’entra niente. Non si tratta di votare su una proposta di legge o sulla scelta di un candidato. Si tratta di mandare a processo, oppure no, un ministro; di decidere se il potere giudiziario può sindacare una scelta del potere esecutivo, di cui tra l’altro hanno dichiarato di condividere la responsabilità sia il premier Conte che Di Maio e Toninelli; di valutare se l’interesse pubblico perseguito da Salvini era o non era «preminente» rispetto ad altre norme e ad altri diritti. Materia delicatissima e opinabile. Che già se sei un commissario della giunta e hai letto due volte tutte le carte è difficile decidere, figurati se sei un iscritto a Rousseau e se il voto che stai per esprimere, secondo una sentenza del Garante della privacy del 2018, non ha neanche le garanzie dell’anonimato, e la sicurezza da ogni manipolazione è più che dubbia.
La piattaforma Rousseau, che era stata concepita come una piattaforma Robespierre, viene per la prima volta chiamata a bocciare la ghigliottina e a far trionfare la ragion di Stato. Ma nascondersi dietro al popolo non è meno sbagliato di aizzarlo. Senza contare il rischio che arrivi la risposta sbagliata. Come abbiamo visto, è già successo.