Quando i rapporti tra le parti hanno natura gerarchica o intercorrono tra soggetti diseguali, la giustizia non può assumere la forma della semplice reciprocità, ma dovrà, piuttosto, configurarsi come una forma di reciprocità bilanciata
Il progetto filosofico che Aristotele persegue nei due volumi compagni dell’Etica Nicomachea e della Politica è quello dello studio delle condizioni per il raggiungimento del bene supremo, del fine ultimo di ogni essere umano, della felicità. Il termine εδαιμονία (eudemonìa) che traduciamo malamente con “felicità”, andrebbe meglio inteso con il significato di “fioritura umana”, uno stato e un agire, “stare bene” e “fare il bene”.
In sequenza, l’una dopo l’altra, l’Etica e la Politica gettano le basi di una scienza pratica della felicità che nel primo libro si concentra sulle forme e gli stili di vita individuale e nel secondo, invece, esplora gli aspetti relativi alle forme istituzionali e di governo necessarie alla sua promozione e protezione. In entrambi i domini, quello della vita privata e quello della vita pubblica, la giustizia è una componente fondamentale della vita buona. Aristotele sviluppa la sua teoria della giustizia a partire dal libro V dell’Etica dove la troviamo inserita in una più ampia descrizione del mondo delle virtù. Come nel suo stile, del resto, la trattazione è principalmente classificatoria. Si comincia distinguendo la giustizia come “virtù completa” o “perfetta” dalla giustizia “che è parte della virtù” (la virtù parziale).
Vita buona e giustizia parziale
Nel primo senso “chiamiamo giusto ciò che produce e custodisce per la comunità politica la felicità e le sue componenti”. Si tratta della virtù che gli uomini mostrano nelle loro relazioni reciproche quando queste sono rivolte alla promozione della vita buona e della felicità per i membri della comunità. Al contrario la giustizia parziale riguarda la distribuzione “di onori, di denaro o di quant’altro si può ripartire tra i membri della cittadinanza”. Mentre la giustizia completa ha dunque a che fare con ciò che possiamo chiamare “il bene”, quella completa fa riferimento al nostro concetto di “equità”.
Ed è proprio questa accezione di giustizia che costituisce l’oggetto principale dell’analisi che Aristotele sviluppa nel libro V dell’Etica. Continuando nel suo sforzo tassonomico il filosofo distingue ulteriormente la giustizia parziale in giustizia “distributiva” e in giustizia “correttiva”. Prima di addentrassi nella discussione di questi due concetti è importante, però, chiarificare il punto di partenza della discussione aristotelica e cioè l’idea di giustizia come reciprocità. “Alcuni ritengono che anche la reciprocità sia giustizia in senso generale, come dicevano i Pitagorici – afferma Aristotele – essi, infatti, definivano il giusto in generale come il ricevere da un altro quello che gli si è fatto subire. Ma la nozione di reciprocità – continua – non si adatta né alla giustizia distributiva né a quella correttiva”.
In molti casi, infatti, ciò che detterebbe il principio di reciprocità mal si concilia con ciò che potremmo ritenere giusto. Se, per esempio, “un magistrato ch’è al potere colpisce, non deve per questo essere colpito in contraccambio; se invece uno colpisce un magistrato, non solo deve venir colpito, ma anche punito”. Quando i rapporti tra le parti, dunque, hanno natura gerarchica o intercorrono tra soggetti diseguali, la giustizia non può assumere la forma della semplice reciprocità, ma dovrà, piuttosto, configurarsi come una forma di reciprocità bilanciata. Una reciprocità che rappresenta non tanto una relazione “aritmetica” ma, piuttosto, una relazione di natura proporzionale. “Nelle relazioni e negli scambi il relativo diritto mantiene il taglione basandosi sulla proporzione e non sull’eguaglianza […] E la città si basa appunto sul contraccambiare in ragione della proporzione. O infatti si cerca di ricambiare il male, o, in caso contrario, sembra di essere in schiavitù; altrettanto per il bene; se no, non v’è il contraccambio di benefici, sul quale si basa l’unione civile”.
Uno scambio, quindi, sarà considerato giusto se le cose scambiate saranno in proporzione ai meriti o al contributo dato da ciascuna delle parti in questione. Se le parti sono uguali, hanno, per esempio, contribuito in maniera uguale al benessere l’uno dell’altro, o ad fine comune allora giustizia sarà fatta quando i benefici che si ottengono verranno distribuiti in misura uguale. Ma se, invece, le parti sono disuguali nel merito o hanno contribuito in maniera differente l’uno al benessere dell’altro, allora, giustizia prevederà uno scambio di benefici differenti in valore. Quanto differenti? In maniera proporzionale al contributo individuale di ciascuna delle parti in gioco, suggerisce Aristotele.
“Nelle comunità, poi, in cui avvengono degli scambi è questo tipo di giustizia che tiene uniti, la reciprocità secondo una proporzione, e non secondo stretta uguaglianza. Infatti, è col contraccambiare proporzionalmente che la città sta insieme”. Qui il filosofo sottolinea un punto di fondamentale importanza, che verrà sviluppato molto più avanti da John Stuart Mill nell’ambito della teoria della giustizia economica con l’idea di mutuo vantaggio. Aristotele ci invita ad immaginiamo la relazione tra un architetto che costruisce una casa e un calzolaio che confeziona una scarpa. Lo scambio tra l’architetto e il calzolaio non potrà basarsi sulla reciprocità semplice – una scarpa per una casa – ma dovrà fondarsi su una reciprocità bilanciata per la quale i rispettivi benefici saranno proporzionali agli sforzi e ai meriti individuali.
Nei termini della giustizia “niente, infatti, impedisce che il prodotto dell’uno valga di più di quello dell’altro: bisogna, dunque, che il loro valore venga parificato. E questo vale anche per le altre arti: esse, infatti, resterebbero distrutte se ciò che produce la parte attiva in quantità ed in qualità non fosse ricevuto nella medesima quantità e con la medesima qualità dalla parte passiva. Infatti, non è tra due medici che nasce una comunità di scambio, ma tra un medico e un contadino, ed in generale tra individui differenti, non uguali: ma questi devono venire parificati”.
La moneta per pareggiare le cose
Una comunità giusta, dunque, formata da individui eterogenei e differenti distribuirà il mutuo vantaggio in modo proporzionale. Questa idea pone un ulteriore problema: come misurare e parificare i differenti meriti e i diversi contributi individuali? La soluzione aristotelica fa riferimento all’introduzione della moneta, un mezzo che permette di misurare i valori di beni diversi con una stessa metrica omogenea. “La moneta quindi, come una misura, serve a pareggiare le cose, rendendole commensurabili: infatti se non vi fosse scambio non vi sarebbe vita sociale, non vi sarebbe scambio se non vi fosse eguaglianza, non vi sarebbe eguaglianza se non vi fosse commensurabilità. Invero, è impossibile che oggetti tanto differenti diventino proprio commensurabili, ma per l’uso corrente ciò può verificarsi in misura sufficiente. La moneta dev’essere quindi qualcosa d’unico ed essere ciò per via di una convenzione legale: per questo in greco essa è detta ‘cosa legale’ [νόμισμα]: ed essa rende tutte le cose commensurabili: tutto, infatti, può misurarsi con la moneta”.
Per questa via, la misurazione attraverso un mezzo che oggi chiameremmo “numerario”, è possibile rendere confrontabili i valori di beni o contribuzioni differenti e attivare processi di scambio proporzionali e quindi giusti in termini distributivi. Tuttavia, Aristotele riconosce anche la possibilità di casi che non possono essere risolti attraverso tale processo perché coinvolgono valori incommensurabili e quindi non confrontabili. Questa è una delle ragioni che spiegano la possibile insorgenza di conflitti: “battaglie e lamentele sorgono – infatti – in conseguenza del fatto che uguali hanno e possiedono cose che non sono uguali, o persone che non sono uguali hanno cose che sono uguali”.
La seconda variante della giustizia parziale è quella a cui Aristotele si riferisce con il termine di “giustizia correttiva”. “Questo tipo di giusto – ci spiega il filosofo – ha un carattere specifico diverso da quello [distributivo]. Infatti, il giusto che riguarda la distribuzione dei beni comuni è sempre conforme alla proporzione suddetta […] Ciò, invece, che è giusto nei rapporti privati è una specie di uguale, e l’ingiusto una specie di disuguale, ma non secondo quella proporzione, bensì secondo la proporzione aritmetica”. La giustizia correttiva entra in gioco nell’ambito di transazioni volontarie e involontarie. Le prime fanno riferimento, negli esempi presentati da Aristotele, a casi di transazioni di carattere economico-finanziario come “vendita, acquisto, prestito, cauzione, nolo, deposito, locazione”. Le transazioni involontarie, invece, si riferiscono a casi nei quali si utilizza l’inganno o la forza: “Furto, adulterio, avvelenamento, corruzione di schiavi, omicidio doloso, falsa testimonianza […] maltrattamenti, sequestro, omicidio, rapina, mutilazione, diffamazione, oltraggio”.
La giustizia in tutti questi casi ha natura “aritmetica” e non “proporzionale”. Non c’è, infatti, nessuna differenza se un uomo buono toglie qualcosa ad uno cattivo, o se è uno cattivo che toglie qualcosa ad uno buono, né se a commettere adulterio è una donna buona o una cattiva. La giustizia qui fa riferimento non tanto alle qualità o al merito delle parti, ma all’entità del danno. Il danno toglie qualcosa a qualcuno determinando una situazione di disuguaglianza tra le parti. E’ proprio tale disuguaglianza che la giustizia correttiva deve puntare ad compensare. “Per conseguenza, il giusto correttivo sarà il medio tra perdita e guadagno. Ecco perché, quando si litiga, ci si rifugia dal giudice: andare dal giudice significa andare davanti alla giustizia, giacché il giudice intende essere come la giustizia vivente. E si cerca il giudice come termine medio (anzi alcuni chiamano i giudici “mediatori”), nella convinzione che se si raggiunge il termine medio, si raggiungerà il giusto. In conclusione, ciò che è giusto è un che di intermedio”.
Sviluppo politico della giustizia
La giustizia distributiva e quella correttiva hanno sia una dimensione individuale che collettiva, politica, ma Aristotele sembra dare maggiore peso a questa seconda dimensione. Per lui, infatti, il luogo della virtù, dell’eccellenza e della fioritura umana è primariamente la polis, per questo la giustizia non può non avere uno sviluppo prevalentemente politico. Ne parleremo diffusamente in un’altra occasione. Basti qui anticipare che tale concezione di giustizia è complessa e di non facile interpretazione. C’è chi ha riscontrato nella distinzione tra giustizia naturale e giustizia convenzionale che Aristotele sviluppa soprattutto successivamente nella Politica, l’anticipazione del concetto stoico e poi cristiano di “legge naturale” da una parte e di quello humeano di “virtù artificiale”.
Il tema della giustizia politica è centrale ancora oggi e, forse, ancor più oggi perché se è vero, da una parte, che una scelta giusta non fa di un uomo un uomo giusto, è anche vero, dall’altra, che la creazione delle condizioni istituzionali affinché tale giustizia diventi un habitus individuale e collettivo può aiutarci, a vivere come persone e come comunità giuste, capaci, cioè – è così torniamo alla assunzione iniziale – di ricercare la vita buona e di promuovere il fine ultimo della genuina “fioritura umana”. Non sarebbe inutile, forse, ricominciare a guardare alle nostre istituzioni da questa prospettiva.