EDITORIALI
Fonte: Corriere della Sera
di: Aldo Cazzullo
Dunque la vacanza ateniese non è stata gratis. Anzi. Il conto del semestre pueblo unido del duo Tsipras -Varoufakis, e della brigata internazionale portatasi in supporto ad Atene, è durissimo.
E a pagarlo saranno i greci. Non gli armatori, le ragazze chic di Kolonaki, i magnati con i conti all’estero; ma i pensionati, gli studenti, i poveri, il variegato fronte che ha sostenuto Syriza e i suoi alleati della destra nazionalista, ha votato No al referendum, e ora subisce un piano molto più punitivo di quello che avevano ottenuto i vecchi, screditati partiti. E il conto dei populismi rischia di essere altrettanto salato in altri Paesi. A cominciare dal nostro.
Intendiamoci: c’è poco da esultare per la vittoria della linea del rigore. Esiste ormai una questione tedesca. La Germania ha raggiunto con la pace l’obiettivo che aveva fallito scatenando due guerre mondiali: conquistare l’egemonia in Europa. Non ne sta facendo un uso generoso, e neppure lungimirante. Tsipras l’hanno creato un po’ anche la Merkel e Schäuble: se fossero stati meno arcigni prima, non si sarebbero ritrovati poi ad Atene un governo rossobruno. Il punto è che la strana alleanza dei populisti – siano di destra, di sinistra o post ideologici – ha trovato terreno fertile anche lontano dall’Egeo. La rivolta contro i partiti tradizionali, le forme consuete di rappresentanza, le istituzioni europee e l’austerity teutonica percorre l’intero continente, e prende forme molto diverse. Legittime, comprensibili; ma non indolori.
In Spagna, dove si vota tra quattro mesi, il movimento degli Indignati ha filiato sia Podemos, una forza di sinistra in aperta polemica con il partito socialista, sia Ciudadanos, centristi che insidiano i popolari di Rajoy. In Francia il populismo ha il volto nazionalista di Marine Le Pen. In Italia il fronte rossobruno di Atene ha un sostegno che va da Fassina a Salvini e alla Meloni, passando per i falchi di Forza Italia e per il Movimento 5 Stelle, ai massimi storici nei sondaggi. In mezzo, postdemocristiani che non toccano palla da anni, Berlusconi che oscilla tra il rancore verso la Merkel e gli interessi aziendali, e Renzi che in Europa fatica molto a farsi ascoltare sia sull’emergenza migranti, sia sulla necessità di nuovi investimenti per lo sviluppo.
È inevitabile che le sirene del populismo antieuropeo e antitedesco traggano consensi da questa situazione. Ma sarebbe illusorio pensare che l’uscita dalla moneta unica, o il rifiuto dell’Europa, siano una liberazione gioiosa.
Contro la dura logica di Berlino e di Bruxelles si sono scontrati tutti i governi italiani. Sia quelli, presto diventati impopolarissimi e condannati alla damnatio memoriae (Amato 1992, Monti 2012), chiamati a porre rimedio ai disastri altrui. Sia quelli eletti dal popolo con promesse destinate all’amara verifica dei rapporti di forza continentali: nella moneta unica siamo entrati ai tempi di Prodi con una tassa, chiamata nobilmente eurotassa anche se servì anche a coprire magagne nostrane, e ci siamo rimasti ai tempi di Berlusconi rinunciando all’illusione elettorale delle due aliquote secche al 23 e 33%. Ora Salvini ne promette una sola al 15, uguale per tutti, con ulteriori detrazioni a garantire la progressività: sarebbe meraviglioso, no?
La verità è che la battaglia contro l’austerity e per la crescita passa attraverso una tela faticosa di alleanze internazionali, di riforme interne, di tagli alla spesa (finora finiti nei libri più che nei bilanci), e infine attraverso un confronto durissimo con una cancelliera che ha vinto tre elezioni, si appresta a vincerne una quarta nel 2017 e dietro ha una grande coalizione e un Paese solido. Insomma: sarà un viaggio lungo e difficile; e, come dimostra il caso Tsipras, le scorciatoie sono tutte bloccate.