Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Mieli
Forse l’Unione è in condizioni meno disastrose di come, soprattutto qui da noi, si percepisce e si descrive. E se ciò che è accaduto in conseguenza dell’ultima, devastante crisi economica, l’avesse rafforzata anziché ridurla allo stremo?
E se l’Europa fosse in condizioni meno disastrose di come, soprattutto qui da noi, la si percepisce e la si descrive? Se ciò che è accaduto in conseguenza dell’ultima, devastante crisi economica, l’avesse rafforzata anziché ridurla allo stremo? Sono domande più che plausibili per come si presenta la vigilia del voto del 26 maggio dopo una campagna elettorale in cui il dibattito è stato relativamente ordinato e le maggiori insidie sono scaturite dal nostro Paese. L’impressione complessiva è che dopo una grande tempesta, riparati i danni e le ammaccature, ci siano tutte le premesse per la ripresa del cammino, con ulteriori passi in vista dell’edificazione dell’edificio continentale. Con il coinvolgimento, addirittura, di formazioni che fino a ieri si presentavano come irriducibilmente antisistema. Da quattrocento anni, su scala europea, ogni secolo è stato sconvolto da un violento conflitto al quale ha fatto seguito una lunga fase di assestamento (sempre turbata, ad ogni evidenza, da scosse locali). È stato così nel Seicento con la «Guerra dei trent’anni» (1618-1648) conclusasi con la pace di Westfalia dove fu definita un’Europa dai confini certi, al riparo dai conflitti religiosi. E nel Settecento con la «Guerra dei sette anni» (1756-1763) combattuta oltreché sul nostro continente, nelle Americhe, in India e in Africa tant’è che Winston Churchill ne parlò come della «prima vera guerra mondiale». Accadde qualcosa di simile poi nell’Ottocento con le guerre napoleoniche e la successiva ricostruzione dell’Europa impostata al Congresso di Vienna (1815). E nel Novecento con le due spaventose guerre mondiali alle quali è seguita una lunghissima stagione di pace: oltre settant’anni. Sempre l’Europa è uscita meglio definita e rafforzata da questo genere di terremoti.
Negli ultimi venticinque anni l’Europa unita si era data il compito di consolidare e rendere definitiva la pace del dopo 1945. E, quantomeno fino ad oggi, ha assolto alla sua missione. Ma in tempi recenti a mettere in crisi l’impianto della Ue è esplosa, invece di una guerra, un’imprevista e forse imprevedibile crisi economica dalla durata e dalle dimensioni davvero eccezionali: dieci anni (2008-2018). Una crisi sussultoria che ha travolto i piani espansivi di ognuno dei ventisette Paesi della Ue e ha spaventato dappertutto le opinioni pubbliche facendo vacillare le istituzioni dell’intero continente. Un prolungato stress test che ha messo a dura prova l’intero sistema europeo e che non è detto si possa considerare del tutto alle nostre spalle. Effetto di questo choc è stata senza alcun dubbio la decisione inglese di uscire dall’Europa (2016). Ma il fatto che, a tre anni dal referendum, le procedure per quest’uscita non siano state definite e, per un bizzarro destino, gli inglesi siano tenuti adesso a deporre nell’urna una scheda destinata ad eleggere il Parlamento europeo, ha sortito l’effetto di indurre i sovranisti di ogni parte d’Europa a trattenersi dal riproporre una qualche loro forma di «exit». Paradossalmente si può sostenere che l’Europa sia uscita rinvigorita persino dall’evento più traumatico consumatosi tre anni fa in Gran Bretagna.
Dove si è vista ancora la tenuta dell’Europa? Innanzitutto con la crisi greca del 2015. In quell’occasione Atene ha avuto al timone un leader, Alexis Tsipras, il quale ha sfidato un referendum destinato nelle intenzioni dei proponenti a mettere le premesse per l’uscita del Paese dalla comunità (o almeno così era parso). Poi lo stesso Tsipras si è fatto carico di una «cura» economica senza precedenti. Pur di restare in Europa, successivamente, è andato allo scontro con il ministro delle Finanze Yanis Varoufakis che ancora oggi (nel libro «Adulti nella stanza» edito dalla Nave di Teseo) sostiene essersi il suo Paese piegato agli interessi «dei potentati istituzionali e delle consorterie». Con queste mosse coraggiose Alexis Tsipras ha trattenuto la Grecia nella Ue e la sta guidando, a prezzo di enormi sacrifici, fuori dalla crisi. Scelte analoghe hanno fatto i governanti di Irlanda, Spagna e Portogallo. Con ostinazione, anche a costo di inimicarsi le élites intellettuali dei loro Paesi: pochi giorni fa il premier socialista portoghese, Antonio Costa, si è detto pronto ad aprire la crisi di governo qualora gli fosse stato imposto dal Parlamento un aumento retroattivo agli insegnanti che — sono parole sue — avrebbe compromesso «la credibilità internazionale del Paese».
Adesso può darsi che — come annunciano i sondaggi — la Grecia veda crescere (al 35%) il partito di destra, Nuova Democrazia, e debba assistere al calo (25%) di quello di Tsipras, Syriza. È possibile che qui e là i partiti sovranisti abbiano buoni risultati. In qualche caso, ottimi. Ma una visione di insieme ci porta a considerare un successo dell’Europa il fatto che le intenzioni disgregatrici di tali partiti si siano ridimensionate e che molte di queste formazioni siano oggi disponibili a combinazioni politiche con forti partiti di tradizione europeista, ben saldi nell’ancoraggio alle istituzioni continentali. C’è un solo Paese, il nostro, in cui i leader di governo si sono lasciati andare in campagna elettorale a superflue dichiarazioni di guerra che — come loro stessi hanno già avuto occasione di costatare in precedenza — possono avere come unico effetto quello di far crescere lo spread. Parole che — stiamo parlando degli annunci di sforamento di Matteo Salvini — producono danno soltanto per il fatto di essere state pronunciate. L’Italia si trova ad essere l’unico Paese europeo i cui governanti aderiscono a quella strana scuola sedicente keynesiana che promette un improbabile sviluppo da ottenersi attraverso lo sperpero di denaro pubblico, l’accumulo di nuovo debito e lo scontro perenne con le istituzioni di Bruxelles. Istituzioni di un’Europa che si sta rimettendo in sesto, peraltro a fatica, talché ancora non è detto che ce la faccia e che non siano in agguato nuove sorprese. Spiace che tali incognite debbano essere, per la maggior parte, riconducibili all’Italia.