Un accordo per fermare la guerra che non penalizzi Kiev conviene anche all’America
Non è affatto detto che Donald Trump abbandoni l’Ucraina al suo destino. Non è detto che sia nell’interesse dell’America. Chi in Europa ne temeva di più l’avvento, ora sembra fare maggior credito al nuovo presidente. Intendiamoci: che una soluzione della crisi richieda concessioni territoriali da parte di Kiev, de jure o de facto, provvisorie o definitive, è chiaro a tutti. Ma la necessità di accompagnarle con garanzie di difesa a prova di bomba per l’Ucraina futura appare sempre più vitale non solo per quel popolo, che rischia la vita e la libertà, non solo per l’Europa, che rischia la faccia, ma anche per l’America di Trump. Firmare un qualsiasi accordo con un figuro come Putin, questo lo sappiamo già, non mette infatti al riparo da aggressioni future. Nel 2014 lo zar si prese con la forza la Crimea e parte del Donbass, e l’Occidente glielo lasciò fare. Ma nel 2022, non contento, ha invaso l’Ucraina e attaccato direttamente la capitale. Il fatto che abbia perso quella battaglia e si sia dovuto ritirare a nord, nei confini della «provincia» Bielorussia, non deve farci dimenticare che la guerra fu fatta non per prendersi un po’ di Ucraina, ma per prendersela tutta, cancellandone indipendenza e sovranità. Putin la considera una mera espressione geografica, come Metternich definiva l’Italia nell’Ottocento. Del resto l’ha detto lui stesso, e molte volte, che l’Ucraina non esiste.
Per chiudere un accordo è dunque vitale garantirsi che la Russia non ci riprovi tra cinque o dieci anni. Le garanzie possono coinvolgere direttamente la Nato, o più probabilmente singoli paesi europei della Nato (Gran Bretagna, Francia, Polonia?); possono comprendere lo spiegamento di forze di interposizione, o limitarsi a zone demilitarizzate e a forniture di sistemi d’arma difensivi tecnologicamente avanzati. Ma, quel che più conta è che, sempre più, tutto ciò sembra essere anche nell’interesse dell’America.
Un’ottima ragione per pensarla così a Trump l’ha data proprio Putin, promuovendo quella coalizione euroasiatica-islamica-cinese che sta sfidando ormai apertamente in tutto il mondo l’America per l’egemonia globale, in nome del multipolarismo. Non a caso ormai la chiamano tutti «Terza Guerra Mondiale». Il cui fronte non è dunque solo nel Donbass. Ci sono almeno altri tre confini che l’Occidente è chiamato a difendere: Israele, dall’attacco dell’Iran e dei suoi combattenti per procura, Hamas, Hezbollah, Houthi; la Repubblica cinese di Taiwan dall’espansionismo di Pechino; e la Corea del Sud dai missili del dittatore del Nord, Kim Jong-Un. Guarda caso, Putin ha arruolato truppe nord-coreane, e starebbe ora reclutando anche gli Houthi dello Yemen, coinvolgendo così nel conflitto ucraino le due dittature mediorientale e asiatica; mentre ha stretto un «partenariato senza limiti» con la Cina, che gli fornisce attrezzature e microelettronica per i missili che spara contro l’Ucraina.
Se anche l’America di Trump volesse fare a meno dell’Ucraina, dunque, di certo non può abbandonare a sé stessi anche Gerusalemme, Taipei e Seul. «America first» non significa «America loser», perdente e perciò sempre più debole nel confronto con la Cina, neanche nell’erratica e spesso incoerente personalità del nuovo presidente. Nemmeno lui può tradire la dottrina strategica di lunga data della superpotenza americana, che mira sempre a mantenere la primazia globale. Si spiega forse così perché tra le prime mosse di Trump ci sia stato un incontro proprio con il segretario generale della Nato Rutte: l’Alleanza Atlantica serve, «è preziosa», se si vuole «raggiungere la pace attraverso la forza». E si spiega forse così anche perché Biden abbia dato il via libera all’uso dei missili americani su territorio russo proprio all’indomani del voto: siamo sicuri che il presidente eletto non sia stato informato di una scelta strategica di tale portata?
C’è poi da aggiungere il fattore umano (ne ha parlato Peter Mandelson, uno dei candidati britannici al posto di ambasciatore in Usa, in un seminario di geopolitica organizzato dalla Fondazione Banco di Napoli): Putin non potrà tanto tirare la corda con Trump. Sa che è la sua chance migliore, e sbattergli la porta in faccia al primo approccio potrebbe essere un errore per l’ego di The Donald. Insomma, la partita è aperta: in mille giorni Putin non è riuscito a vincerla, perché dargliela vinta ora a tavolino?