19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Lucrezia Reichlin

Per l’Europa è importante che il caso italiano sia una lezione per cambiare le regole. Per l’Italia è tempo di prendere l’iniziativa con un piano che vada al di là del brevissimo periodo

La soluzione trovata all’ultimo minuto per la crisi delle banche venete ha fatto tirare a tutti un sospiro di sollievo ma ha anche generato polemiche che sono destinate a durare. La trattativa è stata lunga e caotica ed ha causato perdite che si sarebbero in parte potute evitare. Nel giro di pochi mesi le banche sono state dichiarate prima solventi e poi insolventi, prima sistemiche ai fini della stabilità finanziaria e poi locali. La soluzione è stata alla fine trovata sfruttando una clausola della legge italiana, un espediente legale il quale, se non nella forma, nei fatti infrange lo spirito delle regole che prevedono il bail-in dei creditori senior in caso di risoluzione. La conseguenza dell’applicazione di questa norma è che, questi ultimi, nel mercato italiano, godranno, da ora in poi, di una garanzia implicita.

Al di là delle accuse e delle polemiche che continueranno ad avvelenare il dibattito italiano e la discussione europea, sarebbe utile soffermarsi sul significato di questa storia per il futuro dell’Unione bancaria ed in particolare per il meccanismo di risoluzione che ne è parte integrante. L’Italia, pur indebolita da questa vicenda e da quella del Monte dei Paschi di Siena, dovrebbe avere oggi la lucidità di guardare oltre e concepire una soluzione per il suo sistema bancario e i crediti deteriorati che metta il sistema in sicurezza e che possa essere la base di un negoziato a Bruxelles e Francoforte che affermi dei principi di riforma delle regole attuali che — ormai è chiaro — non funzionano.

I casi di Veneto Banca, Banca Popolare di Vicenza e Monte dei Paschi di Siena hanno rivelato delle falle che vanno corrette. La prima, è che il principio filosofico secondo cui le ricapitalizzazioni non vadano mai (o quasi mai) fatte con fondi pubblici è irrealistico. Questo principio nasce dalla sacrosanta volontà di proteggere i contribuenti dai costi di risanamento di banche del cui fallimento non sono responsabili. Durante la crisi, i fondi pubblici sono stati generosamente elargiti per salvataggi bancari da parte di varie autorità nazionali e questo va evitato. Tuttavia, nessun profondo risanamento di un sistema malato può riuscire senza un intervento, almeno temporaneo, dello Stato. Quest’ultimo non deve però costituire una garanzia incondizionata al sistema e deve avvenire in modo congiunto ad una pulizia aggressiva dei bilanci, a possibili consolidamenti tra istituzioni e anche alla liquidazione di quelle chiaramente insolventi.

Di fatto, il principio della ricapitalizzazione pubblica si è accettato nel caso del Monte dei Paschi, dove il finanziamento è stato accompagnato dalla vendita a prezzo di mercato dei crediti deteriorati. Questo principio dovrebbe essere adottato per il sistema nel suo complesso. Richiede la costituzione di una bad bank nazionale dove parcheggiare i crediti deteriorati per poi riciclarli nel mercato secondario. Poiché il trasferimento dei prestiti deve avvenire a prezzi di mercato, più bassi di quelli a cui questi ultimi sono contabilizzati a bilancio, il complemento alla bad bank deve essere un fondo di ricapitalizzazione il quale abbia anche la responsabilità della ristrutturazione del sistema.

Idealmente questo potrebbe essere uno strumento europeo, ma poiché le risorse sono nazionali è irrealistico pensare oggi ad una autorità interamente federale. Tuttavia, un management congiunto tra autorità europee e autorità nazionali sarebbe auspicabile e l’Italia dovrebbe dimostrarsi aperta ad una soluzione di questo genere. Ma qui veniamo alla seconda lezione della crisi recente. La molteplicità delle istituzioni coinvolte — la Bce che deve sancire l’insolvenza, la Commissione europea che deve approvare l’intervento e le autorità nazionali che devono metterci i soldi — comporta ritardi, negoziati costosi e costituisce un incentivo a sfruttare idiosincrasie delle legislazioni nazionali. In una situazione in cui il meccanismo di risoluzione non ha chiari poteri esecutivi e in cui il backstop rimane nazionale non è facile capire come rendere efficiente ed efficace questo sistema. Una strada potrebbe essere quella di un rafforzamento del potere esecutivo del meccanismo di risoluzione che preveda anche — come suggerito sopra — il management congiunto del fondo di ricapitalizzazione e della bad bank oltre alla armonizzazione (o perlomeno l’inizio di un processo in questo senso) delle leggi nazionali sui fallimenti bancari. In altre parole, fondi nazionali e struttura decisionale congiunta, come primo passo per un veicolo interamente federale.

La crisi recente sarà probabilmente costosa, il nostro sistema non è ancora al sicuro e un elemento fondamentale dell’Unione bancaria, forse la maggiore conquista nella governance europea dopo la crisi, ha subito un colpo. Per l’Europa è importante che il caso italiano sia una lezione per cambiare le regole. Per l’Italia è tempo di prendere l’iniziativa con un piano che vada al di là del brevissimo periodo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *