22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

aleppo

di Paolo Mieli

l 2016 resterà nella storia come l’anno della mattanza della città siriana: 53 mesi di combattimenti con decine di migliaia di morti. Uno dei punti centrali della crisi è la presenza di gruppi armati islamisti persino più feroci di quelli di Daesh

Il 2016 resterà nella storia (almeno quella della crisi mediorientale) come l’anno della mattanza di Aleppo. La battaglia è andata avanti per cinquantatré mesi, dal 19 luglio 2012 al 22 dicembre scorso; ha prodotto una carneficina con decine di migliaia di morti che è stata, un po’ impropriamente, assimilata a quelle di Srebrenica in Bosnia (1995) e di Grozny in Cecenia (1999-2000). Rimarranno a certificazione di quella e altre stragi perpetrate in Siria dal 2011 ad oggi, le foto della cosiddetta Esposizione Caesar (53.000 immagini che documentano le sofferenze inflitte da Assad ai suoi oppositori) già presentate al Museo dell’Olocausto di Washington e nel Palazzo dell’Onu di New York: la presidenza della nostra Camera dei deputati, interpellata dagli organizzatori, ne ha sì riconosciuto l’«altissimo valore civile di testimonianza» ma si è poi dichiarata «sede inopportuna» ad ospitare la mostra perché le scolaresche quotidianamente in visita avrebbero potuto rimanerne turbate. E in febbraio, Emma Bonino si è recata nel villaggio turco di Gaziantep per criticare la decisione di Laura Boldrini.

Gli Alti rappresentanti di Russia, Iran e Turchia si incontrano in questi giorni per festeggiare solennemente la vittoria di Aleppo e definire i termini di una «conferenza di pace» sulla regione che dovrebbe tenersi ad Astana, capitale del Kazakhstan, subito dopo l’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca.

Tutto questo in assenza, ovviamente, del grande sconfitto di questa partita, Barack Obama che, il 30 agosto del 2013 decise di non intervenire militarmente in Siria — nonostante fosse stato provato l’uso di armi chimiche (e fece bene, dal momento che era ugualmente dimostrato che a tali armi avevano fatto ricorso anche i rivoltosi) — e successivamente sdoganò il regime iraniano, aprendo nei fatti le porte alla strana alleanza che si autocelebrerà oggi nella capitale russa.

La prossima città siriana che presumibilmente subirà il «trattamento russo» sarà Idlib dove hanno trovato rifugio gli jihadisti in fuga da Aleppo e che è considerata la capitale non già dell’Isis (quella, in territorio siriano, è Raqqa) bensì dei qaedisti presenti in forze nel conflitto da prima che, nel 2014, venissero allo scoperto i seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi. I sunniti armati di Idlib già mettono sotto assedio i villaggi sciiti di Fuaa e Kefraya cercando di impedirne l’evacuazione. E qui sta uno dei punti centrali di questa crisi: la presenza sul campo di battaglia di gruppi armati islamisti al momento persino più forti e feroci di quelli riconducibili a Daesh. Va a merito dell’inviato Onu in Siria, Staffan de Mistura (instancabile denunciatore degli orrori prodotti da Assad e da Putin), di aver, a differenza dei suoi predecessori — l’algerino Lakhdar Brahimi e prima ancora Kofi Annan —, individuato questo grave problema.

Problema creato almeno in parte dagli Stati Uniti con la decisione di assistere la Free Syrian Army senza curarsi del fatto che le armi fornite venissero poi sequestrate dai qaedisti e che lo stesso esercito di liberazione siriano avesse perso nel tempo ogni precisa identità. Il colonnello Riad al-Asaad che nel luglio del 2011 tradì l’esercito di Assad per fondare il Free Syrian Army, nel 2013 dopo aver subito l’amputazione di una gamba, fu costretto a fuggire in Turchia dove ha trovato riparo nella regione di Hatay (anche se clandestinamente fa ancora la spola con la Siria). Al-Asaad è rimasto un nemico acerrimo del dittatore siriano ed è stato sostituito alla vertice della sua formazione con il generale Abdel al-Bachir: oggi è costretto però ad ammettere che nell’esercito da lui fondato «non si sa chi comandi», che ai suoi tempi l’Fsa era «a favore della gente», mentre «ora non è più così», che «la linea è cambiata» e «sta facendo male alla Siria». Michael Walzer tra i primi ha sostenuto che con il sostegno al «Free Syrian Army» per gli Stati Uniti c’era il «rischio di consegnare armi ai jihadisti che hanno dato ampia prova della loro capacità di disarmare i ribelli laici». Da tempo quel rischio è diventato una certezza.

Di qui si giunge al secondo punto della questione. Le guerre andrebbero evitate ma se — per motivi legittimi, come in questo caso — si decide di farle, come ci si deve comportare nei momenti in cui si intravede una possibile vittoria? Cosa si dovrebbe fare quando i qaedisti, per di più con armi fornite sia pur involontariamente dai nostri alleati, resistono ad oltranza tenendo in ostaggio una popolazione? Tregue, certo. Trattative per giungere se non alla pace almeno a una duratura sospensione del conflitto. Corridoi umanitari per consentire ai feriti di fuggire dai quartieri più martoriati. Ma poi? Poi viene il momento in cui la guerra quasi sempre riprende. A questo punto è un bene che il conflitto sia «lento» come sta accadendo, a dispetto dei baldanzosi annunci della prima ora, per la liberazione di Mosul? O la lentezza non infligge agli innocenti ulteriori tribolazioni in attesa di quella conclusione che prima o poi dovrà esserci? E ci si può immaginare che questa conclusione sia incruenta?

A questo va aggiunto che la guerra non può considerarsi conclusa neanche quando una città piccola o grande sia stata liberata. Può accadere, altrimenti, quello che è successo a Palmira i cui abitanti, in festa per la liberazione, ai primi di maggio potevano assistere nel teatro romano al concerto con musiche di Bach e Prokofiev dell’orchestra di san Pietroburgo di Valery Gergiev e oggi, sette mesi dopo, per una distrazione dei russi sono già tornati nelle grinfie degli jihadisti. La qual cosa comporta che — in vista dell’auspicata sconfitta dell’Isis — Palmira dovrà subire una ulteriore offensiva liberatrice. Altro sangue, altri morti. Quanto all’Onu, su di essa si può contare limitatamente. Dei meriti di de Mistura abbiamo detto. E andrebbero aggiunte parole analogamente benevole per la pur impotente struttura che si muove ai suoi ordini.

Ma il resto delle Nazioni Unite è come sempre paralizzato oppure ha preso iniziative sorprendenti. In giugno, in occasione del World No Tobacco Day, l’Organizzazione mondiale della sanità, agenzia delle Nazioni Unite, si è sentita in dovere di mettere in guardia i siriani dai rischi del fumo.«Senza dimenticare la crisi in corso nel Paese», affermava, bontà sua, la norvegese Elizabeth Hoff, rappresentante dell’Oms a Damasco, «in Siria è venuto il momento di controllare di più il fumo anche quello shisha (narghilè) … il fumo della shisha è più pericoloso di quello delle sigarette». E ha invitato il governo di Assad a mettere il tabacco per la shisha in pacchetti che spaventino i consumatori. Il viceministro siriano della Sanità, Ahmed Khlefawy, l’ha rassicurata ricordando che il suo Paese è in prima linea nella guerra al tabagismo e che nelle scuole gli studenti sono e saranno premiati per il miglior tema, poema o disegno sui pericoli del fumo. Almeno una guerra, grazie all’Onu e all’Oms, potremo vincerla in terra siriana: quella alla shisha. Forse.

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