Fonte: La Stampa
di Francesco Semprini
Dopo la strage nel centro di detenzione il governo di Sarraj manda un messaggio all’Ue. Salvini incontra Maetig: «Svolta preoccupante. Nel Paese ci sono oltre 700 mila stranieri
La notizia giunge mentre il vicepremier Matteo Salvini è impegnato nel bilaterale con Ahmed Maetig, numero due del Consiglio presidenziale di Tripoli. Il Governo di accordo nazionale (Gna) del premier Fayez al Sarraj «dopo il massacro di Tajura sta considerando il rilascio dai centri di detenzione di tutti i migranti», circa 6 mila stimati, «perché la loro sicurezza non può essere garantita». A dirlo è l’omologo libico di Salvini, il ministro dell’Interno Fathi Bashagha, il quale spiega che il Gna è tenuto a proteggere tutti i civili, ma il fatto che vengano «presi di mira i centri di accoglienza da aerei F16, e la mancanza di un’opportuna protezione per i migranti illegali» nei centri stessi, sono cose «al di fuori delle capacità dell’esecutivo». In realtà, riferiscono fonti locali, della chiusura dei centri se ne parla da tempo «sottovoce», ma il raid alle porte di Tripoli di martedì sera ad opera dell’aviazione di Khalifa Haftar, in cui hanno perso la vita almeno 55 persone, ha rilanciato la questione. Vicenda aggravata dalla notizia, riproposta dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), secondo cui i guardiani della struttura avrebbero sparato sui migranti in fuga durante il bombardamento.
Il proclama di Bashaga può essere interpretato come richiesta di aiuto da parte di Tripoli, che non avendo i mezzi per gestire le prigioni in sicurezza chiede soldi per mettere i migranti in luoghi più idonei. E al contempo come un appello alla comunità internazionale a fermare il generale. Non a caso Maetig ha ribadito ieri che il raid di Tajura è stato compiuto da caccia stranieri, emiratini o egiziani, gli alleati di ferro di Haftar. E ha chiesto a Salvini che l’Italia promuova iniziative volte a rafforzare il sostegno internazionale a Tripoli per fermare un conflitto che, secondo la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, rischia di trasformarsi in una «guerra civile su larga scala». Tanto che Vladimir Putin, in visita nella capitale, ha lanciato l’asse Roma-Mosca «per arrivare al cessate il fuoco e riavviare il dialogo». Il leader del Cremlino sostiene inoltre che «sarebbe giusto ricordare da cosa tutto è cominciato. Chi ha distrutto la stabilità della Libia? E’ stata una decisione della Nato. E questo è il risultato». Tripoli da parte sua invoca un’azione internazionale che cominci dalle Nazioni Unite, ma alla condizione indiscutibile che il Gna «con Haftar non tratta», quindi nessuna clausola del cessate il fuoco in eventuali dichiarazioni o risoluzioni, a meno che non vi sia una resa assoluta del generale. Istanza emersa già nell’incontro di ieri tra il ministro degli Esteri, Enzo Moavero, e lo stesso Maetig. Il titolare della Farnesina ha confermato il sostegno italiano all’azione Onu in Libia al fine di fermare, il prima possibile, il continuo aggravarsi delle ostilità.
Salvini, da parte sua, ha invece espresso preoccupazione per la notizia della chiusura dei centri di detenzione e della liberazione dei migranti, che avrebbe ricadute immediate prima di tutto sull’Italia. Ancor di più perché, alle dichiarazioni di Bashaga sulla questione, hanno fatto seguito quelle del portavoce dell’Esercito nazionale libico (Lna) di Haftar, Ahmed al-Mismari, «pronto a cooperare» per un’«uscita immediata» dai centri di detenzione dei migranti usati per altro come «scudi umani dal Gna». A conferma di come, dinanzi a una non chiara presa di posizione del governo giallo-verde sul conflitto libico, la compagine dell’Est è pronta a far saltare il banco accelerando l’effetto panico.
Il rischio di un’ondata di sbarchi con la chiusura dei centri è tuttavia da bilanciare. Sono circa 700 mila i migranti illegali presenti in Libia, di questi 6 mila sono rinchiusi nelle prigioni, 3.800 dei quali vicino alla linea degli scontri come quello di Tajura, a Est di Tripoli. Del totale dei illegali presenti nel Paese, il 12% sono donne quasi sempre vittime di stupri e abusi di ogni sorta, i bambini sono il 9%. Sono oltre 40 i Paesi di provenienza, il più rappresentato è il Niger, seguito da Egitto, Ciad e Sudan. Da tempo si pensa alla chiusura delle prigioni e alla trasformazione in centri di «supporto», dove i migranti si recano solo in caso di necessità. Tutto ciò trova però nella stessa Libia una serie di opposizioni, i centri di detenzione costituiscono infatti una fonte di reddito per molti che mettono le mani sui fondi internazionali stanziati per finanziare le iniziative umanitarie.