Per il dopoguerra gli interrogativi sono molti e l’analisi della situazione deve andare al di là della condanna morale dell’aggressione russa
Non saranno mai abbastanza le parole di condanna per la guerra di Putin. Non sarà mai abbastanza l’indignazione di fronte all’insensato prezzo inflitto alla popolazione di un Paese aggredito. Non sarà mai abbastanza la pietà per le vittime, compresi i ragazzi al servizio dell’ invasore che a migliaia torneranno a casa in casse di legno. Queste sono le ragioni del cuore e di uno slancio di solidarietà che ci ha spinto a scegliere da che parte stare. Tuttavia, la sfera dell’etica non dovrebbe avere del tutto il sopravvento su considerazioni geopolitiche per comprendere genesi del conflitto, conseguenze e possibili vie d’uscita, probabilmente avulse da valutazioni morali.
La narrazione sintetica, di massacri attribuiti a una parte sola, di vittime da un lato e ambizioni del «nuovo Hitler» dall’altro, amplifica invece la sfera etica e conferma una lettura lineare degli avvenimenti che, storicizzati, apparirebbero più complessi. Una sottile linea rossa divide la sfera dell’etica dalla geopolitica. Se si prova a oltrepassarla si rischia il linciaggio mediatico, peraltro poco nobile in democrazia. Ma ragionare aiuta, con la speranza che la Storia non continui a ripetersi. Napoleone era un brigante per Lev Tolstoj e un condottiero per Victor Hugo.
La semplificazione del «nuovo Hitler», malato o impazzito, impedisce di riflettere sulla strategia di allargamento della Nato e sulle ragioni che hanno spinto Mosca a dispiegare la forza militare. Per Putin è stato un pretesto, per molti osservatori indipendenti anche un errore. Gli interventi di Usa e Nato in Serbia, Libia, Irak, Afghanistan, non giustificano l’invasione di un Paese democratico, ma restano decisioni che hanno fatto a pezzi il diritto internazionale e provocato decine di migliaia di vittime, non messe sul conto di nessun tribunale.
Il separatismo del Donbass e l’annessione della Crimea hanno un precedente (e un altro pretesto) nel Kosovo. Gli accordi di Minsk non sono stati applicati, la conquista dell’autonomia e la riconquista della sovranità hanno provocato quattordicimila morti. Sono argomenti che ci dicono che la guerra, fino all’ultimo minuto, poteva essere evitata e che, dopo tanti lutti, si torna al punto di partenza: l’autonomia dei territori contesi, la neutralità dell’Ucraina come base di trattativa.
Se immaginiamo il dopoguerra, qualche interrogativo si impone. Al di là delle responsabilità, ci saranno vincitori e vinti. Chi sta vincendo? Quali scenari si stanno disegnando sulle macerie?
Piaccia o meno, il capolavoro geopolitico lo stanno portando a compimento gli Stati Uniti, dopo la figuraccia in Afghanistan e le tentazioni isolazioniste. Washington ha rilanciato valori occidentali, ricompattato la Nato, spinto gli europei a spendere in armamenti (di cui gli Usa saranno i maggiori fornitori), aumentato esportazioni di gas e petrolio. Cina e India si mantengono quasi neutrali. Si sono astenute sul voto di condanna all’Onu e sostengono la Russia nell’aggirare le sanzioni. Calcolano di trarre vantaggi da un’alleanza «energetica» con la cricca del Cremlino, ricca di materie prime e sul lastrico finanziario. La Russia è stata sospesa dal Consiglio dei diritti umani, su richiesta degli Usa, ma la mozione è stata approvata con 93 favorevoli, 24 contrari e 58 astenuti, fra i quali India, Messico, Brasile, Pakistan, Indonesia, Egitto. La Cina ha votato contro. Il mondo si sta di nuovo dividendo in blocchi, verso una confrontazione fra Occidente e resto del pianeta che raffredda alleanze contro altre emergenze: terrorismo e ambiente.
L’Europa è unita nella condanna della Russia. Ma qualche riserva sull’unanimità delle intenzioni è lecita, se si osservano le posizioni della Germania sulle forniture di gas e dell’Ungheria in rapporto al Cremlino. E fa venire i brividi il possibile terremoto in Francia, la vittoria di Marine Le Pen, amica di Putin. Intanto, si lecca le ferite delle sanzioni, vede impennarsi l’inflazione, abbassa i termosifoni, chiude gli occhi su regimi arabi in cambio di petrolio e stenta a imporsi sinergie per costruire la difesa comune.
Se è lecito oltrepassare la linea rossa, occorre riflettere sulle possibilità di vittoria dell’Ucraina, al di là della sua eroica resistenza grazie anche alle forniture di armi da Europa e Stati Uniti. È un Paese devastato, percorso da fremiti nazionalisti, spopolato da milioni di profughi, probabilmente costretto a una sostanziale neutralità e all’amputazione dei territori contesi, nell’anticamera (ma fino a quando?) dell’Europa.
Quanto alla Russia, la sconfitta morale è catastrofica e il prezzo che sta pagando sul piano militare ed economico è altissimo. Ma la linea rossa ci obbliga a riflettere sul consenso di Putin in patria, sul rafforzamento delle alleanze del Cremlino, sulle minacciose strategie che Mosca è tutt’ora in grado di mettere in campo nel Mediterraneo e in Africa. A poco servirebbero tribunali internazionali per crimini di guerra, se Putin conservasse le leve dell’apparato per continuare il conflitto, almeno fino a un risultato minimo che gli consenta di salvare la faccia sua e l’onore del Paese. Non sarà etico, ma probabilmente è logico.