Letta porta le idee dem: tutto o quasi passa dalla decontribuzione. Ma non intercetta le nuove trasformazioni anche sui diritti
Un segnale sul lavoro è arrivato anche dal Pd. E già questa è una notizia se si considera che il Primo maggio, festa in ricordo delle lotte operaie, anche i dem si sono fatti fagocitare dalla polemica su Fedez invece di rilanciare una questione che nei mesi cruciali per uscire fuori dalla crisi è molto di più del dibattito, decennale e ancora senza soluzione, sul precariato. Il rinnovato dinamismo passa dal tweet che Enrico Letta ha pubblicato martedì dopo l’incontro con Mario Draghi a palazzo Chigi per elencare i titoli delle idee illustrate al premier. Tutto o quasi passa dalla decontribuzione, una ricetta già sperimentata dal Pd di Renzi e da quello di Gentiloni, ma non per questo non più valida. Anzi la rilettura che ne fa Letta per legarla al post Covid può risultare convincente e soprattutto funzionale. Ma quella del Pd sul lavoro resta una lunga rincorsa. E lo è perché non intercetta ancora le nuove questioni, di più la trasformazione di un lavoro sempre più calibrato sull’algoritmo e sui diritti (che mancano) digitali.
Prima di passare in rassegna le proposte avanzate da Letta a Draghi è utile partire dal perché il Pd è di fatto obbligato a rincorrere un tema – il lavoro – che ha perso per strada. La prospettiva di analisi non è quella del rapporto con i sindacati, in particolare con la Cgil, o degli errori fatti su quella flessibilità che è sfociata in un precariato selvaggio, salvo poi fare di quello stesso precariato qualcosa da distruggere in nome di un ritorno al posto fisso che non c’è stato perché nel frattempo il mondo del lavoro ha preso forme assai diverse. Nel bene o nel male questa discussione è stata spazzata via dal Covid e dalla crisi che ne è derivata. E però il tentativo di Letta non può prescindere anche da un altro dato di fatto, spia di una disaffezione, politica e di contenuto, che è partita prima dell’arrivo del virus. È la grande frattura tra i dem e i lavoratori che si è consumata con il superamento dell’articolo 18 nel Jobs Act di Matteo Renzi. Poi, con il Conte 1, sono stati i 5 stelle a prendere in mano la questione del lavoro. Con una ricetta che può piacere o no, copiata o quasi dal Reddito di inclusione voluto dal Pd, ma fatto sta che il reddito di cittadinanza ha caratterizzato una volontà politica e anche una soluzione.
Si potrà obiettare che il Pd non era al governo, che i 5 stelle erano all’apice del consenso e che la Lega aveva assorbito una parte considerevole di quel mondo produttivo del Nord che non è costituito solo dalle piccole e medie imprese, ma anche dai lavoratori che ci lavorano dentro e da tutto quel comparto – il lavoro autonomo, quindi le partite Iva, i commercianti, gli artigiani – che la sinistra ha sempre mal digerito. Preferendogli il lavoro pubblico in quella contesa che dieci anni fa divideva la politica e il dibattito nel Paese tra pubblico e privato, a sua volta sulla scia di un’altra contesa, quella tra i colletti bianchi e le tute blu. Ma se tutto questo si è generato è anche perché il Pd non è stato capace di dare vita a un’agenda alternativa, né di essere precursore di quel cambiamento che intanto stava svuotando le fabbriche e riempendo le strade – il nuovo luogo del lavoro – con i fattorini di Amazon e i rider che portano il cibo a casa. In questo vuoto i 5 stelle hanno rafforzato la loro posizione. Il reddito di emergenza, ideato a maggio scorso, è stata la misura che ha allargato il bacino politico del reddito di cittadinanza. L’accoppiata con il Rdc ha consegnato ai grillini la paternità della strategia contro quello che il virus stava già generando come una coda velenosa: la nuova povertà.
Il Pd si ritrova costretto a ripartire da qui. La prima questione che può marcare o meno un rilancio delle idee sul lavoro è capire se e come controbilanciare la politica dei sussidi. Sappiamo – e ce lo dice l’Istat – che in Italia a causa del Covid c’è un milione di persone in più che vive in povertà assoluta e che in tutto sono 5,6 milioni i poveri assoluti, distribuiti in più di 2 milione di famiglie. Il Pd ripete che il reddito di cittadinanza serve, ma non basta. Draghi l’ha riconfermato così come ha riconfermato il reddito di emergenza, che con il prossimo decreto Sostegni bis sarà allungato fino a luglio. Anche qui il tentativo del Pd di superare questa logica c’è, ma l’alternativa – le cosiddette politiche attive del lavoro – vanno costruite. Fino ad oggi sono risultate fallimentari e oltre alla polemica sull’Anpal guidata da Mimmo Parisi è arrivato anche il momento di capire come cambiare la macchina che incrocia domanda e offerta attraverso i centri per l’impiego e come riallineare il canale dei fondi europei con quelle delle Regioni. La parte del Recovery dedicata al lavoro conferma l’impianto attuale, ma non spiega come superare i problemi legati ad esempio alla formazione, centrata sui corsi d’inglese e sul pacchetto Office, mentre il coronavirus già impone nuove figure lavorative che hanno bisogno di una formazione differente. Sulle politiche attive del lavoro il Pd è fermo all’annuncio.
Ma veniamo alle proposte avanzate da Letta al presidente del Consiglio. La prima riguarda la decontribuzione del lavoro stabile, quello a tempo indeterminato, da incrociare con gli investimenti previsti dal Recovery. La decontribuzione, come si diceva, è stata messa in campo dal Pd quando era al governo tra il 2013 e il 2018. E l’allora ministro per il Sud del governo Conte 2 e oggi vicesegretario del Pd Peppe Provenzano ha tenuto in vita la misura, irrobustendola nel Mezzogiorno con lo sgravio al 30 per cento. La decontribuzione totale per i nuovi assunti è un incentivo alle imprese per tirare dentro nuovi lavoratori. Ma costa. E un altro tema che si pone è la platea dei beneficiari: solo al Sud? Per le donne e per i giovani o per tutti? Un’altra questione critica è se funzionerà il collegamento che fa Letta con il Recovery. Dando per assodato che la decontribuzione funziona per tamponare l’emorragia di posti di lavoro, è altrettanto scontato che può funzionare da leva per le assunzioni solo se gli investimenti del Recovery funzioneranno. E se funzioneranno nei tempi giusti. Abbiamo 133,5 miliardi del Recovery da spendere in investimenti pubblici, ma nel 2019, prima della pandemia (per usare un termine di riferimento congruo) di investimenti ne abbiamo fatto appena 41,1 miliardi. C’è tempo perché i nuovi investimenti vanno fatti da qui al 2026, ma la capacità di programmazione e di spesa resta un’incognita altrettanto forte.
La seconda idea di Letta è la detassazione delle nuove attività, sull’esempio della defiscalizzazione che oggi vale per le start up innovative. Qui lo scatto in avanti è dato dal fatto che si seleziona e si abbandona il modello dei sostegni a pioggia per concentrarsi su alcuni settori e per dare la possibilità ai giovani di mettere su un’attività o un esercizio commerciale capace di reggere la competizione del mercato. La selettività segna un avanzamento e si allinea a un mercato del lavoro che nella fase di uscita dalla pandemia non solo cambierà alcuni mestieri, ma selezionerà quelli pre pandemia. Nell’agenda Letta c’è poi la questione dei provvedimenti attuativi del Recovery per dare attuazione alla cosiddetta clausola di premialità e condizionalità inserita nel piano da 248 miliardi: in sostanza ogni progetto deve prevedere una quota obbligatoria per l’assunzione di donne e giovani. Anche qui bisognerà procedere in modo selettivo: non tutti i settori necessitano delle stesse quote e non tutte le imprese hanno le stesse esigenze, in termini ad esempio di formazione. La direzione politica – donne e giovani – intercetta un disagio imponente. L’attuazione del Recovery, che significa capacità di spendere e di farlo rapidamente, vincola il risultato finale.
Quello che manca è invece uno slancio sui diritti digitali. La questione l’ha sollevata il direttore di Repubblica Maurizio Molinari proprio il Primo maggio: ”È un processo che ha certo bisogno di nuove leggi, regolamenti e norme digitali da parte di governi e Parlamenti ma che in ultima istanza non può aver successo senza la consapevolezza dei singoli cittadini di cosa significa vivere, operare e consumare sul web”. Chi è chiamato a fare la propria parte è anche il Governo, a cascata anche il Pd. La sfida è nuova, ma è già iniziata. Il ritardo accumulato è già importante. Abbiamo un luogo di pensiero – l’Osservatorio permanente in materia di tutela del lavoro tramite piattaforme digitali istituito presso il ministero del Lavoro – ma non ci sono idee e tantomeno norme capaci di dare una soluzione alle questioni che si chiamano sempre salari, orari di lavoro, ferie, malattia, ma che l’algoritmo ha stravolto. Fino ad ora si è arrivati a protocolli e accordi per mitigare singoli aspetti e in maniera tra l’altra parcellizzata. D’altronde, come ha messo in evidenza il ministro del Lavoro Andrea Orlando, quota Pd, in Italia ci sono due approcci: estendere ai lavoratori digitali le tutele che normalmente sono collegate alla subordinazione o regolare diritti e doveri con la contrattazione collettiva. Ammesso che un incrocio tra questi due approcci sia una soluzione, resta il fatto che bisogna partire. E che ancora non lo si è fatto. Certo si potrà obiettare che ci sono questioni più urgenti, a iniziare dallo sblocco dei licenziamenti e dalla riforma degli ammortizzatori sociali, ma niente vieta di scrivere oggi i diritti digitali. Anzi la contemporaneità è di fatto obbligata. A meno che non si scelga di rincorrere ancora.