20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Franco Venturini

Dopo l’uccisione di Qassem Soleimani, un unico grido si è levato: attenti alla guerra per contagio, attenti a non provocare un incendio globale. Più che giusto, ma forse è tardi


Dopo l’uccisione di Qassem Soleimani, mentre gli Usa e l’Iran erano impegnati nell’escalation delle loro reciproche minacce, un unico grido si è levato dal resto del mondo: attenti alla guerra per contagio, attenti a non provocare un incendio globale. Più che giusto, ma forse è tardi. Perché i contagi ci sono già. Il primo, il più grave, è stato sancito domenica sera dall’Iran con l’annuncio che Teheran non accetterà più limitazioni ai suoi programmi nucleari. L’arricchimento dell’uranio, il numero e il modello delle centrifughe, la quantità di uranio arricchito e conservato, la ricerca, tutto obbedirà soltanto alle «necessità tecniche» dell’Iran (che nega di volersi dotare di armamenti atomici, senza però convincere la comunità internazionale). Va chiarito che un ulteriore passo iraniano per rispondere all’uscita di Trump nel 2018 dagli accordi di Vienna firmati da Obama nel 2015, era previsto per la prima settimana di gennaio sin dallo scorso novembre. Ma la radicale scelta di Teheran, che di fatto finisce di smantellare le intese anti-nucleari di Vienna già agonizzanti dopo il ripudio di Trump e l’incapacità europea a porvi rimedio, non può non essere stata influenzata dalla uccisione di Soleimani e dal clima di furore nazionalista che ha accompagnato le sue esequie.
Orbene, cosa comporta la «mano libera» iraniana? Che l’uranio, già arricchito fino a ieri al 4,5 per cento, potrà esserlo d’ora in poi per esempio al 20 per cento, una richiesta già da tempo avanzata dai «falchi» di Teheran. Oppure ancora di più. E così, benché per produrre un ordigno atomico serva un arricchimento al 90 per cento, il tempo necessario per dotare l’Iran della Bomba potrebbe passare da un anno a due o tre mesi. Gli accordi di Vienna, imperfetti e incompleti ma i migliori nel campo del possibile, avevano strappato l’assicurazione anti-nucleare per un anno. Assicurazione che da oggi non esiste più.
La conseguenza immediata non deriva soltanto dalla contrarietà quasi unanime (Europa compresa, va detto) al possesso di armi atomiche da parte dell’Iran, e dai rischi di proliferazione atomica regionale a cominciare dall’Arabia Saudita, dalla Turchia e forse dall’Egitto. C’è di peggio e di più, perché un programma nucleare iraniano fuori controllo va a incidere sulla sicurezza di Israele, che con un solo colpo atomico nella parte geograficamente più stretta del Paese potrebbe essere messo fuori causa pur disponendo egli stesso (mai negato, mai ammesso) di armamenti nucleari.
Netanyahu, a nostro avviso, sbagliò ad opporsi al negoziato di Vienna e ha sbagliato ad incoraggiare l’uscita di Trump. Meglio sarebbe stato per lui far valere le sue ragioni dall’interno di una intesa, riuscendo così a condizionarla. Ma il governo della democrazia israeliana non coincide necessariamente con lo Stato di Israele, verso la cui sicurezza abbiamo un debito inestinguibile. E chi impedirà, allora, che le ricadute dell’uccisione di Soleimani si sommino e si confondano con una ipotesi di attacco ad alta tecnologia, forse solo americano, forse israelo-americano, contro le installazioni nucleari iraniane e altre strutture militari per «guadagnare tempo» sul temuto calendario atomico di Teheran?
Una simile guerra, che avrebbe essa sì ripercussioni mondiali, veniva ipotizzata già molto prima dell’attuale braccio di ferro tra Usa e Iran, ma il patto di Vienna aveva allontanato lo spauracchio. Ora i due filoni, quello della Bomba inaccettabile e quello del «martire» Soleimani, potrebbero fondersi in tempi brevi. Basterà a impedirlo una eventuale ritrosia di Trump, che non dovrebbe voler giungere alle elezioni di novembre in un crescendo di scontri militari dopo aver promesso la loro fine in campagna elettorale? Lo capiremo molto presto.
E poi, in materia di contagi non ci sono soltanto il nucleare iraniano e i rischi per la sicurezza di Israele. È scoppiata una guerra strisciante per il controllo dell’Iraq. Il voto del parlamento di Bagdad per l’allontanamento delle forze straniere ha una rilevanza molto relativa, ma le minacce sanzionatorie di Trump potrebbero avere l’effetto indesiderato di gettare olio sul fuoco dei «sovranisti» iracheni, e allora gli equilibri interni cambierebbero. E l’Iran potrebbe ricevere un grandissimo regalo (già messo in cantiere da George W. Bush con l’invasione anti-sunnita del 2003) sotto forma di presenza ancor più forte nel grande e strategico vicino. A dispetto delle folle di dimostranti (incoraggiate da qualcuno?) che nelle scorse settimane protestavano anche contro l’invadenza iraniana.
Ancora. Tre morti e due feriti americani in Kenia vicino al confine con la Somalia. Siamo sicuri che le frange estremiste di Teheran non parlano con al-Shabab, cioè con al-Qaeda? In Libia, poi, la situazione peggiora ogni giorno. E la Russia, che ha disapprovato l’uccisione di Soleimani ed è partner dell’Iran in Siria, sta cercando di silurare la conferenza di Berlino prevista per fine mese (per fermare Di Maio a Tripoli non è servito il Cremlino). Angela Merkel andrà a Mosca nei prossimi giorni per salvare il salvabile, per provare a evitare un contagio che è cruciale soprattutto per l’Italia.
Attenzione, i contagi potrebbero diventare epidemia. E nel frattempo tutti gli occhi restano fissi su Teheran, su quale risposta, in aggiunta alla «libertà nucleare», che l’Iran vorrà dare alla morte di Soleimani. Sarà una risposta da guerra totale, oppure una serie di gesti ostili, necessari sul fronte interno ma non irrimediabili nel braccio di ferro con il Grande Satana? Trump aspetta, e intanto prova a disegnare una strategia.

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