22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Salvatore Bragantini

L’Italia è tra i fondatori dell’Unione Non ci si difende dalla speculazione rinchiudendosi in un piccola Patria che da sola non reggerebbe l’urto


Infuria la guerra di parole con la Commissione Ue sul Documento di economia e finanza (Def); al di là della maggior spesa per interessi legata allo spread, di cosa si sta parlando, quali sono i rischi per il nostro Paese, per l’Eurozona e per l’Unione europea? La guerra di parole è fuorviante, distrae dai temi veri, parla alla pancia, anziché alla testa delle persone; le rodomontate alimentano il nazionalismo. Le parole sono meglio delle armi, ma anch’esse fanno danni e il gioco può costare caro. François Mitterrand disse, nello storico discorso al Parlamento europeo di Strasburgo (gennaio ‘95): «Il nazionalismo, è la guerra…La guerra non è solo il nostro passato, può essere anche il nostro futuro».
Va ricordato a che titolo altri Stati, o la Commissione Ue, intervengono sul nostro Def; anche noi potremmo intervenire sui conti altrui, potrebbe essere utile, bisogna solo essere credibili. L’Italia è uno dei sei Paesi fondatori (Trattato di Roma, Marzo ‘57) della Comunità Economica Europea poi sfociata nella Ue. Come fondatore, ma soprattutto per il suo peso economico, culturale e politico, l’Italia ha grande rilievo nell’ambito Ue. Noi stessi però ci sottovalutiamo, ciò nuoce alla considerazione che altri hanno di noi. Non possiamo agire come un piccolo Stato le cui bizze i grandi possono trascurare, non siamo, con tutto il rispetto, la nostra madre Grecia, e nemmeno la Spagna; siamo l’Italia, e chi tanto pare tenere al nostro onore dovrebbe per primo avvertire la gravità dell’onere che ne deriva.
Conviene rileggere le premesse al Trattato di Roma; ci troviamo le vere basi della costruzione europea, oggi scolorite. Fra queste c’è l’obiettivo di una «Unione sempre più stretta»: perciò la Ue s’è data norme sovranazionali per promuovere la convergenza delle economie nella Ue. Il mancato rispetto di tali norme suscita le critiche, a volte davvero sbagliate, della Ue. Essa teme i danni di politiche avventate come alcune riflesse nel Def (dei cui reali contenuti ancora troppo poco si sa, a parte i saldi, già minacciosi). Atti e parole del nostro governo, lungi dal dissipare i dubbi, li rafforzano ogni giorno.
Il Regno Unito, intanto, negozia il divorzio dalla Ue, sottoponendola a forte tensioni interne spesso latenti. L’insieme delle sfide che questa oggi fronteggia mette a rischio la sua stessa sopravvivenza come grande entità politica sovranazionale. Brexit a parte, infatti, essa ha davanti tre minacce potenzialmente letali: le democrazie illiberali ad Est, l’impatto delle migrazioni a Sud, e la situazione degli Stati super indebitati, tutti fronti questi su cui l’Italia le si contrappone. Naturale che la Ue guardi con ansia ai disegni a lei ostili di Mosca e Washington; non la rassicura certo la spinta verso il ménage à trois fra Russia, destra italiana e sovranisti trumpiani Usa. Tutto ciò spiega perché la Ue interviene. I «mitici» mercati temono però, ben più di tali contrasti, che le scelte dell’Italia ne mettano a rischio la permanenza nell’Eurozona. Premier e vice si affannano a disfare di giorno quel che le loro Penelopi tessono di notte, specie nei talk show, ma la verità la dicono quest’ultime. Almeno da novembre 2011 c’è il timore di vedere i crediti in euro verso la Repubblica italiana convertiti di Botto (sarà il segretissimo piano B?) in nuove lire. Ciò spinse Mario Draghi (luglio 2012) all’impegno di fare «tutto quanto serve» per difendere l’euro. Le asserzioni sprezzanti dei leader della coalizione («I mercati se ne faranno una ragione») non rassicurano gli speculatori, ma nemmeno i più quieti risparmiatori.
Il danno va però molto oltre; tali posizioni, che apertamente snobbano le regole comuni, bloccano gli sforzi dei pochi volonterosi per completare l’unione bancaria, tuttora priva di suoi tasselli essenziali. Chi più ha da perdere qui sono ovviamente gli Stati deboli. L’interesse italiano impone invece di darsi da fare per sbloccare lo schema europeo di assicurazione dei depositi bancari (fermo su un binario morto) e rafforzare il Fondo per la «Risoluzione» delle banche in crisi. A tal fine è essenziale il consenso dei partner europei, prima quella Francia con cui amiamo invece la guerra delle parole. Dio non voglia che ci si debba trovare un giorno ad aver bisogno di tali strumenti, che abbiamo attivamente operato per bloccare. Strano modo davvero di attuare il motto «prima gli italiani»! Insospettiscono gli accenni di alcune Penelopi a future speciali emissioni di titoli «riservate agli italiani». Il film l’abbiamo già visto in molti cinema, non finisce mai bene e il biglietto costa pure caro. Conosciamo gli effetti di misure, a prima vista virtuose ma che poi per via divengono forzose, per rifilare ai cittadini titoli rigettati dai mercati. I quali non sono eletti da nessuno, giocano ruoli impropri, poco compatibili con la democrazia; purtroppo essi sono interlocutori necessari per chi ogni anno deve rifinanziare debiti per 400 miliardi. Non ci si difende dalla speculazione rinchiudendosi in un piccola Patria che da sola non reggerebbe l’urto, bensì partecipando, in modo attivo e consapevole, ad un grande progetto politico, che va sì riportato ai suoi veri scopi, da cui troppo s’è discostato, ma al di fuori del quale nessuno Stato della nostra Europa ha un futuro.

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