Fonte: La Repubblica
di Silvia Bencivelli e Elena Dusi
Dei 30 italiani che quest’anno si sono aggiudicati i fondi dell’European Research Council più della metà (17) spenderà quei soldi all’estero. Per molti restare, o tornare, nelle università del nostro Paese è impossibile. Dopo le polemiche tra la linguista emigrata in Olanda e il ministro Giannini, ecco le ragioni che spingono tanti ricercatori a partire. E qualcuno a rimanere
L’idea è semplice: selezionare giovani ricercatori con idee eccellenti e permettere loro di fare quel saltino che permette di diventare indipendenti. Cioè di passare dalla situazione di giovane ricercatore, che lavora sotto un supervisore, a quella in cui si ha la gestione autonoma di un proprio progetto di ricerca. In grande. Con milioni di euro. I finanziamenti Erc hanno l’obiettivo di far crescere una generazione di ricercatori di talento. Vengono erogati dall’European Research Council (Erc) che, dal 2014 e fino al 2020, distribuirà più di 13 miliardi di euro. Perciò la selezione si gioca tra migliaia di ricercatori di tutto il continente ed è di altissimo livello.
Un ricercatore premiato con il cosiddetto Consolidator Grant, cioè uno che ha fatto il dottorato da 7-12 anni (stiamo parlando di un quarantenne), può aggiudicarsi anche due milioni di euro. Se si considera che tutti i Prin, i Progetti di rilevante interesse nazionale, per tre anni, per tutta la ricerca italiana ammontano a 92 milioni di euro, si capisce quanto sia alta la posta in gioco.
Una volta aggiudicato il grant si tratta di organizzarsi per spenderlo. A quel punto il ricercatore sceglierà la sede più favorevole alla sua ricerca, in termini di struttura, personale, burocrazia. E ogni anno succede la stessa cosa: i ricercatori italiani se la cavano bene (quest’anno siamo terzi a pari merito). Ma molti di loro con quei soldi scelgono di fare ricerca all’estero: quest’anno sono 17 su 30 (il 56,7%), due anni fa erano 26 su 46 (stessa percentuale, 56,5%, sebbene non si possa non notare che, in termini assoluti, c’è una certa flessione). L’unica promozione il nostro paese la riceve in fatto di pari opportunità: il nostro è l’unico paese in cui le vincitrici superano i vincitori: 16 contro 14.
A seconda di quello che si vuol dire, si può festeggiare perché i nostri ricercatori sono bravi e il nostro sistema universitario li prepara bene. Oppure si può raccontare la storia di un paese votato al declino perché investe tanto nel laureare gente che poi il laboratorio di eccellenza lo apre in Germania o in Danimarca. Nei giorni scorsi, il ministro Giannini ha propeso per la prima lettura, affidando a Facebook i suoi complimenti: “Un’altra ottima notizia per la ricerca italiana”. Ma sempre su Facebook le ha risposto una che quei soldi li spenderà all’estero, la linguista Roberta D’Alessandro: “Non confondiamo la ricerca italiana con la ricerca fatta da italiani”. Come dire che avere passaporto italiano non significa poter essere contato nel sistema della ricerca italiana, perché per molti restare (o tornare) non è possibile. Ne è nata una discussione che ha coinvolto migliaia di ricercatori sui social network, sui blog e sulle riviste online. Con un dato, sottolineato dal fisico Giorgio Parisi in una lettera alla rivista Nature: tra il 2007 e il 2013 l’Italia ha contribuito al programma europeo per la ricerca con 900 milioni di euro all’anno, e ne ha visti rientrare solo 600 in un anno. E i numeri non hanno il passaporto.