16 Settembre 2024

La “Base Nazionale” a Niamey era stata concepita come snodo logistico per sostenere tutti gli interventi nella regione

Per gli aerei stranieri il cielo del Niger è chiuso. Il governo Meloni ha chiesto l’autorizzazione al volo per Niamey di un jet con l’ambasciatrice Emilia Gatto, sorpresa in patria dalla crisi, ma il permesso è stato negato. Anche gli americani sono stati costretti a invertire la rotta di un cargo dell’Air Force partito da Ramstein. I francesi invece hanno tentato una prova di forza, facendo atterrare ieri mattina un Airbus A400 sulla pista: il velivolo è stato subito circondato dai golpisti fedeli al generale Tiani.
Tutta la breve storia della missione in Niger è segnata dalla differenza di approccio dei due tricolori. Con Parigi che intende rimarcare in maniera assertiva gli interessi nelle ex colonie mentre Roma vuole inserirsi nel Sahel seguendo un basso profilo. Una diversità che rischia di specchiarsi nella gestione del nuovo scenario creato dal putsch contro il presidente Bazoum e continua a mostrare un’Europa divisa nelle partite internazionali.
Oggi il nostro contingente si è asserragliato nel fortino realizzato all’esterno dell’aeroporto della capitale, nel quadrilatero a Sud della città dove si trovano le installazioni francesi e statunitensi: non ci sono segnali di ostilità verso gli italiani, come misura preventiva però anche gli istruttori distaccati presso i reparti nigerini sono stati fatti rientrare nel campo protetto. La “Base Nazionale” – così viene definita nei documenti ufficiali – è stata costruita come snodo logistico per sostenere tutti gli interventi nella regione. Ma prima ancora di venire completata ha visto dissolversi molti dei suoi compiti. Il putsch filo-russo in Mali ha chiuso l’operazione Takuba, imponendo un anno fa la ritirata della nostra spedizione insieme al resto dei soldati euro pei. Poi ad ottobre il colpo di Stato in Burkina Faso ha congelato i piani di azione nel Paese. E adesso un nuovo golpe mette in discussione il futuro del Niger, ultimo pilastro occidentale nell’area più turbolenta e più strategica dell’Africa.
Il sostegno dei militari nigerini alla rivolta della Guardia Presidenziale ha sorpreso la missione italiana. Da cinque anni i nostri istruttori si occupano di addestrare le forze locali e hanno formato più di 10mila uomini dell’esercito, della gendarmeria e della guardia nazionale. Lezioni che sono diventate sempre più specializzate, concentrandosi nell’ultimo periodo sulle truppe scelte e sulla creazione di un battaglione paracadutisti. Sul terreno c’è pure la Task Force Victor, con incursori del Rao e carabinieri del Gis: nonostante il mandato votato dal Parlamento includa il mentoring – ossia l’accompagnare in battaglia i loro allievi nigerini – non risulta però che sia mai stata impegnata in combattimento. Tutta l’attività di istruzione è stata condotta “all’italiana”, cercando di valorizzare le tradizioni dei soldati locali: l’obiettivo è conquistarne la fiducia mostrandosi come partner. Pure il motto della spedizione “Non nobis solum” – tratto dalla frase di Cicerone “non siamo nati per noi stessi” che indica la volontà di contribuire al bene dell’umanità – rimarca il senso di collaborazione. Ci sono state numerose iniziative umanitarie, nel settore scolastico e medico. E alcune donazioni di mezzi militari, inclusi due elicotteri AB-412 dismessi dalla Guardia di Finanza: i generali nigerini avevano chiesto molto di più ma le regole burocratiche hanno ostacolato la cessione di armamenti. Insomma, i rapporti con militari e autorità sono sempre stati idilliaci. Come ha sottolineato il generale Francesco Paolo Figliuolo, che dirige tutte le attività internazionali ed è stato due volte nel Paese negli scorsi mesi, «i soldati nigerini e italiani, insieme, rappresentano un baluardo saldo della sicurezza regionale ed europea».
Questa è l’idea di fondo dell’operazione concepita nel 2017 dal governo Gentiloni come parte di un disegno complessivo per ristabilire l’influenza italiana in Africa e fermare alla radice le rotte dei trafficanti di uomini. Il piano di ampio respiro prevedeva di consolidare la presenza in Libia, dove non era ancora esplosa la guerra civile, e poi mettere piede in Niger, il crocevia dei movimenti di migranti verso il Mediterraneo. L’elemento cardine di questa manovra era proprio presentare un modello diverso di intervento europeo, sostenuto dalla Germania, marcando la differenza di atteggiamento rispetto ai francesi. Che infatti inizialmente hanno cercato in ogni modo di rallentare l’arrivo del contingente: le nostre avanguardie hanno dovuto chiedere appoggio alle strutture americane.
Tre anni dopo lo scenario si è ribaltato. Dopo l’abbandono del continente voluto dalla presidenza Trump e la riduzione delle truppe decisa da Macron per ragioni elettorali, è stata Parigi ad invocare la partecipazione tricolore alla missione Takuba in Mali. Una spedizione molto più aggressiva, con uno squadrone di elicotteri d’assalto Mangusta e Chinook destinati ad agire nelle zone più calde della rivolta jihadista. L’unità italiana è diventata operativa a gennaio 2022, poi la giunta golpista maliana ha chiamato la Wagner e messo alla porta gli europei: a luglio gli elicotteri sono volati via e quaranta tra camion e blindati hanno percorso 1.300 chilometri in colonna attraverso l’Africa fino al porto di Cotonou, in Benin. Era previsto che parte delle forze portate via dal Mali venissero schierate in Niger nei prossimi mesi, aumentando il numero complessivo da 350 a 500: il Paese è rimasto l’ultimo alleato occidentale nel deserto rosso del Sahel, dove cercare di frenare l’insurrezione jihadista e l’avanzata dei mercenari russi. Ma ora la rivolta di un pugno di pretoriani mette tutto in discussione.

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