20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Paolo Mieli

Una volta insediato Biden e constatato che si è voltata pagina, sarebbe bene che la minaccia del «ritorno di Trump» non diventasse l’alibi per impedire che nel mondo dell’informazione statunitense (e non solo in esso) vengano riposte in qualche armadio le divise del giornalismo militante


Impeccabile. Perfetta. Inappuntabile. La decisione di Brian Williams, Shepard Smith, Jake Tapper, Lester Holt anchorman di Nbc, Cbs, Abc, Cnn (e altre reti televisive) di togliere la parola a Donald Trump nel momento in cui si accingeva a denunciare non provati brogli elettorali, è stata corretta sotto il profilo deontologico. Di più: è stata determinante per il disinnesco di un congegno incendiario che avrebbe potuto precipitare gli Stati Uniti nel baratro di una guerra civile.
Il fatto di esser stati costretti ad annoverare tra gli «eroi» televisivi di queste quattro giornate di novembre anche Bret Baier della Fox (la tv di Rupert Murdoch, fino all’altro ieri assai indulgente nei confronti di Trump) ha, però, innervosito i colleghi che avevano più titoli di lui in fatto di militanza avversa al Presidente Usa. Anche perché Baier non è stato il solo a dar prova di coraggio soltanto in extremis. La columnist del Washington Post Margaret Sullivan ha ironizzato sul risveglio di cronisti e opinionisti i quali, solo quando è stato ben chiaro che Trump era stato sconfitto e non sarebbe stato in grado di vendicarsi, hanno tirato fuori gli artigli e, in qualche caso, hanno perfino ecceduto nelle manifestazioni di disappunto per i comportamenti tenuti dal Presidente degli Stati Uniti nei suoi ultimi attimi alla Casa Bianca. Càpita.
Ma forse — anche per i settori più intemperanti del mondo culturale e informativo statunitense — non ha molto senso compiere adesso una misurazione della «limpieza de sangre», verificare cioè a quando risalga e quale sia il tasso di purezza dell’ostilità dei loro pari al Presidente uscente. In primo luogo perché — ad essere onesti — non si può certo dire che il mondo dell’informazione a stelle e strisce nel suo complesso abbia peccato per servo encomio nei confronti di Trump. Inoltre si presenterà presto l’occasione di verificare coerenza e buona fede di ognuno valutando la celerità nella rinuncia all’inseguimento dell’avversario sconfitto e prontezza nel passare al setaccio del «fact checking» ogni atto della nuova amministrazione. Con la stessa severità, s’intende, usata nei quattro anni appena trascorsi.
Poi forse verrà il tempo (ci auguriamo presto) in cui verranno riconsiderati alcuni grandi o piccoli «misfatti» commessi in campo antitrumpiano, anche se talvolta non direttamente riconducibili alla battaglia contro Trump. Stiamo parlando, ad esempio, della stagione del Black Lives Matter che ha indotto alle dimissioni il direttore delPhiladelphia Enquirer Stan Wischnowski per il solo fatto che aveva manifestato dubbi su alcune forme di «attacchi al potere». Ma parliamo anche della stagione precedente, quella del MeToo, che ha fatto perdere la direzione della New York Review of Booksa Ian Buruma messo alla gogna per aver pubblicato l’articolo di un conduttore radiofonico canadese, Jian Ghomeshi, imputato (e poi assolto) per molestie. Uno spirito dei tempi che ha indotto il commentatore conservatore Andrew Sullivan a lasciare il New York Magazine dopo che aveva scritto articoli in contrasto con la linea politica del giornale. Che ha obbligato alle dimissioni il direttore della pagina delle opinioni del New York Times, James Bennet, messo sulla graticola per aver consentito la pubblicazione di una column del senatore repubblicano Tom Cotton favorevole all’uso dell’esercito contro le manifestazioni violente. Che hanno spinto 563 docenti a pretendere l’allontanamento da Harvard del linguista Steven Pinker reo di aver scritto su Twitter che «la polizia uccide troppa gente, sia bianchi che neri». Che, tornando al New York Times, ha generato il mobbing della giornalista Bari Weiss (inducendola ad andarsene) per le sue «incursioni nel pensiero sbagliato». La direzione del New York Times – ha protestato Bari Weiss – si è sentita in obbligo di inserire una nota ad un reportage di viaggio in Israele perché l’articolo «non aveva toccato aspetti importanti della composizione sociale di Jaffa e della sua storia»; ma «non ci siamo sentiti in dovere di aggiungerne una all’intervista di Cheryl Strayed con la scrittrice Alice Walker, un’orgogliosa antisemita che crede nei Rettiliani». Il tutto – ha ironizzato la giornalista – al riparo del “quattromillesimo articolo su Donald Trump pericolo numero uno per il Paese e per il mondo”.
Per quel che riguarda il New York Times va a questo punto ricordato che Adolph Ochs nel 1896 quando acquistò il giornale mise in chiaro che il quotidiano avrebbe dovuto fare delle proprie colonne «una tribuna per tutte le questioni di interesse pubblico» e a tal fine «invitare a una discussione intelligente fra tutte le diverse opinioni» . E che – in coerenza con la manifestazione d’intenti di Ochs – fino ad oggi (diciamo a ieri) quelle pagine sono state orgogliose di dare ospitalità a pareri dissonanti da quelli che formavano l’ossatura della linea politica del giornale.
Infine non si può non citare il caso più recente e clamoroso, quello del premio Pulitzer Glenn Greenwald. Grande “nemico” anni fa di George W. Bush, Greenwald per la sua non arrendevolezza si guadagnò la fiducia di Edward Snowden di cui riuscì a far pubblicare in tutto il mondo i celebri documenti top secret. Greenwal ha poi fondato una «piattaforma informativa», The Intercept; successivamente si è trasferito in Brasile dove con un’ inchiesta sconquassante ha portato alla luce le pressioni del giudice Sergio Moro al fine di incriminare l’ex presidente Luiz Ignacio Lula e rendere così possibile l’elezione a Presidente di Jair Bolsonaro. Un benemerito, insomma, della libera informazione. Pochi giorni prima delle elezioni americane, Greenwald ha rumorosamente lasciato la sua creatura, The Intercept, denunciando di essere stato censurato per alcune affermazioni critiche su Biden e l’ «affaire Ucraina». In passato, ha protestato, «qui si è potuto scrivere cose che non mettevano in buona luce Biden perché molti di noi parteggiavano per Bernie Sanders»; adesso «mi è stato detto che non potevamo consentirci di contribuire alla vittoria di Trump».
Comprensibile. Sono cose che capitano in momenti come questi. Prendiamoci ancora qualche settimana per darci il tempo di ritrovare un equilibrio di giudizio. Però, una volta insediato Biden e constatato che si è voltata pagina, sarebbe bene che la minaccia del «ritorno di Trump» non diventasse l’alibi per impedire che nel mondo dell’informazione statunitense (e non solo in esso) vengano riposte in qualche armadio le divise del giornalismo militante.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *