È giusto puntare a rafforzare la pubblica amministrazione, ma non approvando decreti incomprensibili che dimostrano l’assenza di una strategia di scelte legislative
Il 22 giugno è entrata in vigore la legge 74, di conversione del decreto-legge per il «rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni pubbliche». Sono 30 articoli per 74 pagine complessive. Lo stesso giorno, il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto-legge 75, di 44 articoli, per 49 pagine, con lo stesso oggetto del precedente decreto-legge.
Questo secondo decreto, oltre a modificare alcuni articoli del primo, contiene, come il primo, moltiplicazioni di uffici pubblici, per lo più per sdoppiamento, aumenti di dotazioni organiche, nuove assunzioni, aumenti di spesa pubblica. Comprende materie che vanno dalla peste suina africana alle ferrovie, dalla cultura alla giustizia, dalle carceri alla scuola, dalla pubblica sicurezza alle prefetture, dai vigili del fuoco ai segretari comunali, dall’università alla sanità, dalle infrastrutture allo sport, tanto che è stato firmato da più di tre quinti dei membri del governo.
Questa rapida successione di provvedimenti con lo stesso contenuto, persino con alcuni «repentir», segnala numerosi problemi.
In primo luogo, l’assenza di una strategia di politica legislativa e la mancanza di filtri, che possano depurare richieste che chiaramente arrivano a Palazzo Chigi da ogni parte. Marco Damilano, su Domani del 25 giugno scorso, ha osservato che è al governo un «partito dei ministeri con la loro atavica inerzia». Io penso che si sia dato mano libera all’azione dei topi nel formaggio.
Il presidente del Consiglio si dedica giustamente a smentire all’estero che la difesa dell’interesse nazionale, operata dal nuovo governo, venga confusa con il nazionalismo. Il sottosegretario alla Presidenza deve seguire, comporre, attutire, mantenere la coesione; in una parola, svolge l’opera tipica di quella funzione, quella di agire da parafulmine. Ma i governi debbono poter disporre di una centrale di pianificazione della legislazione, perché ogni politica passa attraverso le norme e questa sovrapposizione e contrapposizione di provvedimenti è il sintomo di un vuoto, a colmare il quale bisogna provvedere al più presto.
Il secondo problema riguarda il mezzo adoperato per la finalità di rafforzare la pubblica amministrazione. Non c’è dubbio che questo sia un obiettivo da perseguire. Ma si rafforza la pubblica amministrazione se si moltiplicano gli uffici, se si aumenta il personale, se si accresce la spesa pubblica? Ricorrendo a questo strumento, non si finisce per complicare l’azione della pubblica amministrazione e appesantirla, aumentando i labirinti e i vicoli ciechi? Non sarebbe meglio razionalizzare strutture e procedure, dislocare il personale esistente in base ai carichi di lavoro, motivandolo, eliminare controlli superflui e gestire meglio quelli utili?
Il terzo problema riguarda la tecnica di scrittura dei due decreti-legge. Essa è tale da renderli incomprensibili ai non addetti ai lavori e c’è da giurare che, provenendo le molte norme da tanti diversi richiedenti, neppure nel governo vi sia chi le sappia comprendere tutte.
È un vero peccato che non si legga più Il giornalino di Gian Burrasca e non si ricordi come veniva preparata nel collegio la minestra di magro alla casalinga del venerdì, con la rigovernatura dei piatti sudici dei giorni precedenti. Gian Burrasca, a quella vista, lanciò la sua scarpa dicendo: metteteci anche questa. Noi preferiremmo rimanere digiuni.