ESTERI
Fonte: La Stampa
di Giordano Stabile
Alla ripresa del dialogo a Ginevra, il Cremlino annuncia il parziale ritiro d’intesa con Assad. Lo zar diventa così il regista dei negoziati e previene un eventuale intervento di terra saudita
Dopo aver guidato l’escalation militare Vladimir Putin ora vuole guidare la descalation. Ieri il presidente russo ha colto tutti di sorpresa quando ha annunciato l’inizio del ritiro delle truppe russe dalla Siria e ha dichiarato la missione «nel complesso eseguita». Una tempistica da maestro, mentre a Ginevra cominciava la nuova tornata di colloqui di pace. Un round su posizioni più solide rispetto a gennaio, con una tregua in vigore dal 27 febbraio che ha retto oltre le aspettative.
Il capo del Cremlino sembra aver anticipato gli avversari, come lo scorso 30 settembre, quando con un massiccio intervento aereo aveva salvato il presidente siriano Bashar al-Assad dal collasso delle forze armate. Ma la tempistica è anche dettata dalla prospettiva di un altro intervento, questa volta di terra, da parte del fronte sunnita nemico di Assad, guidato dall’Arabia saudita. Re Salman, a fine gennaio, aveva detto che sarebbe intervenuto in Siria «entro due mesi», anche se solo con il consenso Usa. Nelle recenti manovre militari ha ammassato una grande armata sunnita.
Il Re e lo Zar si sono chiamati più volte nelle scorse settimane. L’inizio del ritiro delle truppe russe a difesa delle basi aeree può servire, fra l’altro, a disinnescare l’intervento sunnita. Anche se il nodo da sciogliere, e lo si è visto anche ieri a Ginevra, resta lo stesso: il destino di Assad. Ma la mossa dello Zar potrebbe essere un mezzo di pressione sull’alleato. La potenza aerea russa ha rovesciato le sorti della guerra. Ora, «a missione compiuta», tocca al leader siriano trovare la soluzione politica, con una transizione morbida, gestita in prima persona. Ne hanno parlato probabilmente lo stesso Assad e Putin, ieri al telefono. Assad ha detto di «essere pronto a iniziare il processo politico al più presto».
Via anche i Pasdaran
L’annuncio di Putin ha colto di sorpresa pure la Casa Bianca: gli Usa hanno detto varie volte, ha sottolineato il portavoce John Earnest, che «l’intervento militare di Mosca rendeva più difficile gli sforzi per una transizione politica». Ora la Russia, ha precisato il Cremlino, manterrà solo un centro di controllo aereo «per monitorare la tregua». Le basi russe di Tartous e Hemeimeem opereranno in regime di «routine» mentre la «lotta al terrorismo» sarà affidata principalmente alle forze siriane. Ma già il 25 febbraio il Segretario di Stato americano John Kerry aveva dato un primo segnale che il vento stava cambiando, quando aveva confermato che i Pasdaran iraniani a sostegno di Assad «si erano completamente ritirati».
Il loro disimpegno era stato chiesto da Mosca a fine dicembre, quando si preparava la prima tornata di colloqui a Ginevra. Sul campo restano l’Hezbollah libanese e milizie sciite irachene. Il cordone di sicurezza attorno ad Assad si assottiglia. Per Damasco però l’ipotesi di una sua uscita di scena «non è sul tavolo», come ha ribadito l’ambasciatore siriano all’Onu Bashar Jaafari, ieri a Ginevra. La delegazione governativa guidata da Jaafari è stata la prima a incontrare Staffan De Mistura. L’inviato Onu ha precisato che i colloqui dureranno 10 giorni, concentrati su tre questioni: «Un nuovo governo inclusivo, una nuova Costituzione ed elezioni» entro 18 mesi.
La posizione dei ribelli, che vogliono Assad via dal potere «vivo o morto», è ancora lontanissima. Il capo negoziatore Mohammed Alloush ha detto di non aver visto «alcun segno del ritiro russo». Ma adesso, per le due potenze rivali, l’obiettivo principale è l’Isis e la Russia si è anche offerta di «coordinarsi» con gli Stati Uniti per attaccare Raqqa, la capitale dello Stato islamico. Dopo cinque anni di «conflitto assurdo e brutale», come l’ha definito ieri l’Onu, per la Siria forse è davvero il momento della verità.