Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Franco
Il benservito che il premier Conte ha dato al sottosegretario Siri rappresenta la prima vera sconfitta di Salvini in questa campagna elettorale europea
I toni felpati, la pignoleria perfino un po’ pedante del linguaggio giuridico e le parole di solidarietà rivolte al suo sottosegretario Armando Siri non debbono ingannare: il benservito che il premier Giuseppe Conte gli ha dato ieri pomeriggio, con una sorta di discorso alla maggioranza giallo-verde e all’opinione pubblica, è stato perfino ruvido. E forse rappresenta la prima vera sconfitta che Matteo Salvini subisce in questa campagna elettorale europea, dopo avere difeso tenacemente il viceministro indagato per corruzione. Siri si dovrà dimettere. E a nulla è servito il suo tentativo di rinviare di due settimane la decisione con un comunicato diffuso pochi minuti prima dell’annuncio di Conte.
Anzi, la sensazione è che il presidente del Consiglio sia stato irritato da quella manovra disperata. Lo ha indotto a essere ancora più esplicito nell’indicargli l’uscita dal governo, lasciando da parte la questione giudiziaria ma condannandolo di fatto sul piano politico. Ha colpito anche la sicurezza con la quale Conte ha chiuso la pratica. Sapeva di avere l’appoggio, o meglio il pungolo del Movimento Cinque Stelle, che da giorni premeva inutilmente per avere lo scalpo simbolico di Siri. E ha scelto il giorno in cui il vicepremier Salvini si trovava in Ungheria a inseguire le sue ambizioni sovraniste, per sferrare un colpo pesante contro la Lega.
È come se il Movimento di Di Maio avesse deciso di riaffermare i rapporti di forza parlamentari anche nel governo: quelli che da mesi Salvini aveva messo tacitamente in discussione, con un protagonismo a tutto campo legittimato dai sondaggi. Invece a freddo, ma utilizzando una questione «calda» come i rapporti tra politica e magistratura, i Cinque Stelle hanno riaffermato il proprio peso di forza di maggioranza relativa. Il pretesto era perfetto, per riaccreditarsi presso un elettorato frustrato da mesi di «contratto» con Salvini; e per tentare di risalire nei consensi che accreditano il M5S dieci punti sotto il risultato delle Politiche del 4 marzo di un anno fa.
Si può anche ridurre la questione a una rivincita dell’istinto giustizialista degli eredi di Beppe Grillo: istinto latente e sempre pronto a rispuntare. Ma c’è di più: c’è la voglia di rimettere Salvini in una nicchia più piccola delle sue ambizioni; di sfidarlo di fronte all’opinione pubblica, e se necessario anche dentro il governo. Insomma, di ribadire che le chiavi della maggioranza populista le hanno entrambi, M5S e Lega, ma è il Movimento a poterle strappare dalle mani degli alleati quando vuole. Su questo sfondo, il caso Siri diventa la sublimazione della manovra di ridimensionamento del Carroccio, studiata circa un mese fa a Palazzo Chigi.
E non sorprende che a metterla in pratica sia Conte, non Di Maio. Al «garante» del contratto di governo viene assegnato per l’ennesima volta il compito di risolvere una questione spinosa, sfoggiando un atteggiamento neutrale, equanime: arbitrale. E nel suo invito finale alla Lega a non avere «una reazione corporativa», e al M5S a «non cantare vittoria» per non calpestare il diritto alla presunzione di innocenza di Siri, si avverte l’esigenza di non apparire sbilanciato a favore di Di Maio. Ma il risultato rappresenta, politicamente, una conferma delle tesi grilline sull’opportunità che il sottosegretario si facesse da parte.
Soprattutto, suona come uno schiaffo non solo a Salvini, ma all’intera nomenklatura leghista, schierata con l’esponente indagato e convinta di poter reggere l’urto dell’offensiva del M5S. Questa vicenda è, in realtà, uno spartiacque. Conferma la volontà dei vertici del Movimento, di intimidire il Carroccio, scoraggiandone eventuali tentazioni elettorali; e di fare capire al suo leader che, se vuole l’autonomia regionale al Nord, se vuole più consensi, deve passare sotto le forche caudine del contratto: non quello ufficiale ma quello parallelo, tacito, inesorabile, che tiene la Lega al guinzaglio dei voti veri del 4 marzo del 2018, non di quelli, per ora virtuali, dei sondaggi del maggio 2019.
Il fatto che, almeno a caldo, Salvini abbia liquidato le dimissioni di Siri come un fatto che non avrà conseguenze sul governo, può apparire un gesto di massima responsabilità o di massima rassegnazione. È probabile che si debba preparare a affrontarne altri, di qui al 26 maggio; e di fare i conti non solo con le pretese di Di Maio e col lessico suadente e spietato di Conte. C’è una Lega pronta a seguire docilmente il leader finché vince o appare vincente. Ma, da oggi, forse, è meno sicura di una vittoria facile.