23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Mauro Magatti

Oggi non è più realistica un’Unione come l’abbiamo pensata all’inizio degli anni ‘90, e cioè come una pura costruzione tecnico-istituzionale


Accendendo lo scontro con la commissione europea, la finanziaria ha spinto ancora di più l’Italia nell’occhio del ciclone di una congiuntura storica che arriva a toccare il destino del vecchio continente nel quadro della ridefinizione in corso dell’ordine globale. Al di là delle giuste critiche alla manovra del governo pentastellato, le tensioni di questi giorni — che di fatto aprono la campagna elettorale per le prossime elezioni — mettono però anche in evidenza l’invecchiamento della cornice istituzionale e culturale che sta dietro il trattato di Maastricht che regge l’attuale forma della Unione Europea.
Firmato nel 1992, cioè tre anni dopo la caduta di Berlino, il Trattato fu siglato proprio mentre si andavano formando gli assetti politici ed economici che hanno caratterizzato l’epoca della «globalizzazione» e che avrebbero poi determinato le dinamiche storiche fino alla crisi del 2008. Ciò spiega la natura e gli obiettivi di Maastricht, dove è evidente una concezione regolativa delle istituzioni nell’ipotesi, tipica di quel periodo, che fosse possibile costruire un mondo (e quindi una Europa) «a pilota automatico», cioè con una politica «leggera». fondamentalmente al servizio del buon funzionamento dei mercati.
Rispetto a quella concezione oggi ci sono due importanti fattori di discontinuità. In primo luogo, l’Europa di oggi porta le ferite dell’attraversamento problematico della più grave crisi del dopoguerra, sopraggiunta quando ancora la forma politica-istituzionale dell‘Unione era incompiuta. E l’Italia è tra le aree che più hanno sofferto di tale transizione. In secondo luogo, il post-2008 vede il ritorno in grande stile della politica (come si vede nello scontro Stati Uniti – Cina, nelle politiche di reshoring — cioè di rientro delle imprese delocalizzate — o di chiusura delle frontiere ai migranti) un piano estraneo alle istituzioni europee, per come sono state pensate fino ad oggi. In questo nuovo scenario l’Unione si trova pericolosamente a oscillare tra il richiamo nazionalistico (espresso non solo dai partiti sovranisti) e la freddezza dei numeri che caratterizza l’Europa di questi ultimi anni.
D’altra parte, Maastricht era stata pensata come la «fase uno» di un processo che prevedeva lo sviluppo politico dell’Unione. Una evoluzione che subì una brusca battuta di arresto dalla bocciatura della bozza di costituzione (poi caduta completamente nell’oblio) determinata dai referendum popolari francese e olandese del 2007.
Se inquadrato in questi antecedenti storici, il conflitto tra Italia (con il suo peso economico e politico) e istituzioni di Bruxelles va visto come il segnale più forte delle difficoltà che oggi incontra il progetto Europeo. Considerazione che dovrebbe spingere – al di là della necessaria ricerca di una mediazione sensata – a capire che è ora di tornare a Maastricht e di immaginare il modo per andare oltre.
Ci sono infatti buone ragioni per pensare che le prossime elezioni europee segneranno la conclusione della stagione cominciata nei 1992. Da una parte c’è la proposta sovranista che punta alla regressione del progetto europeista, con un chiaro ritorno alle centralità delle nazioni. Per quanto problematica e criticata, la Brexit va avanti e segna un punto a favore di questa prospettiva.Ma c’é una strada diversa che non si limiti a ribadire solo il compromesso scritto 25 anni fa?
Questa domanda per il momento non ha risposta. A oggi, si possono però almeno fare due considerazioni. In primo luogo, nel mondo multipolare post2008 la questione politica é necessariamente questione identitaria. Oggi a confronto nel mondo ci sono aree politiche che esprimono idee diverse di uomo, di democrazia, di sviluppo. Per questo, oggi ancora più di ieri non è più realistica un’Europa come l’abbiamo pensata all’inizio degli anni ‘90, e cioè come pura costruzione tecnico-istituzionale.
Proprio su questo piano – ed è questa la seconda considerazione – è necessario segnare un passo in avanti sul piano istituzionale. L’Europa ha assoluto bisogno di recuperare la consapevolezza della sfida che ha davanti: essere il laboratorio mondiale per la nascita di una forma politica nuova, capace di andare oltre l’idea di sovranità moderna. Modello che prevedeva l’esercizio del potere statale su un dato territorio senza relazioni se non di tipo diplomatico-militare con ciò che stava al di fuori. La sfida dell’Europa del XXI secolo non è quella di costruire un super stato. Piuttosto, quella di dar vita a una architettura inedita con piani diversi di sovranità (locale, regionale, nazionale, continentale) all’interno però di una unica cornice di significato (i cardini di una visione europea del mondo) e proprio per questo in grado di farsi sentire nelle grandi questioni della governance planetaria (ambiente, tecno-scienza, integrazione economica, migrazioni, etc.). Superando cosi l’impostazione economicistica che si è cristallizzata a Maastricht.
Ad aiutarci c’è la nostra storia. Con quella caratteristica dell’Europa che Rémi Brague chiama «rinascenza»: la forza dell’Europa — a differenza di altre culture — è la sua capacità di assorbire il nuovo nella tradizione, sviluppandosi per stratificazione e non per sostituzione, con la continua rielaborazione di una matrice antropologica antica che da sempre ha contribuito a orientare il mondo intero.

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