Ci sono almeno tre linee di faglia a spaccare il Consiglio europeo che si riunisce oggi e domani a Bruxelles sulla crisi di Gaza
Forse non avrebbe fatto alcuna differenza, anche se l’Europa avesse mostrato sulla crisi di Gaza la stessa unità e chiarezza offerte, sia pur con marginali stonature, al tempo dell’aggressione russa contro l’Ucraina, quando ci illudemmo di aver esorcizzato i nostri demoni. Anche nell’ideale scenario di una Ue che avesse parlato con una sola voce, senza se e senza ma, a sostegno d’Israele, è improbabile che questo ne avrebbe in qualche modo influenzato la reazione al più grave atto genocida compiuto contro gli ebrei dal tempo dell’Olocausto.
Ma lo spettacolo ai limiti della decenza messo in scena dagli europei in queste settimane appende un macigno al collo di ogni ambizione geopolitica, scoprendola velleitaria e presuntuosa. Non è da oggi che il Medio Oriente e i suoi nodi inestricabili dividono l’Europa. Senza andare troppo indietro, nel 2006, in occasione della guerra tra Israele e la milizia sciita libanese Hezbollah, l’allora presidenza di turno finlandese formulò la proposta di un «cessate il fuoco», che si infranse sull’opposizione di Germania, Olanda e Gran Bretagna, ancora membro dell’Ue. Mai come oggi però il groviglio mediorientale e la madre di tutte le sue questioni, quella israelo-palestinese, fanno da reagente alle profonde lacerazioni che rendono i 27 gli Stati disuniti d’Europa.
Ci sono almeno tre linee di faglia a spaccare il Consiglio europeo che si riunisce oggi e domani a Bruxelles, nel tentativo di trovare un minimo comune denominatore sulla crisi di Gaza.
La prima attraversa i vertici delle istituzioni comuni ed è personale prima ancora che strutturale. Non è mai corso buon sangue tra la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e quello del Consiglio europeo, il belga Charles Michel, al quale durante un’infausta visita ad Ankara non parve vero di lasciarla in piedi e poi relegarla su uno strapuntino, arraffando lesto l’unica poltrona messa a disposizione dal leader turco Erdogan. Ma oltre l’aneddotica, lo scontro tra von der Leyen e Michel, triangolato dalla presenza dell’Alto rappresentante per la politica estera, lo spagnolo Josep Borrell, riguarda la domanda mai risolta nella cervellotica architettura del Trattato di Lisbona: chi parla per l’Ue nel mondo? O, aggiornando la celebre domanda di Kissinger, qual è il numero di cellulare giusto? Nel caso specifico, la presidente della Commissione ha rubato la scena, schierandosi a nome dell’Europa al fianco di Israele, sostenendone il diritto a difendersi senza condizioni. Michel e Borrell invece hanno da subito ammonito lo Stato ebraico a limitare al massimo le vittime civili, accusando anche Netanyahu di aver già violato il diritto internazionale con l’assedio di Gaza. Di più, i due non hanno perso l’occasione per bacchettare indirettamente la presidente della Commissione, portando all’approvazione dei 27 un comunicato che sottoscriveva la loro posizione.
Il contrasto ai vertici dell’Ue non cade in un vuoto, ma si combina con una seconda faglia ancora più importante, quella che da sempre sul Medio Oriente divide buona parte dei Paesi europei in pro-israeliani e pro-palestinesi. Germania, Austria, Olanda, Repubblica Ceca guidano i primi. I quali non accettano di mettere sullo stesso piano l’aggressore, i terroristi di Hamas, e l’aggredito, Israele. E, con le parole di Annalena Baerbock, ministra degli Esteri tedesca, dicono che «ci sarà pace e sicurezza anche per i palestinesi solo quando il terrorismo sarà sconfitto». Spagna, Irlanda, Belgio e Lussemburgo sono il nucleo del secondo fronte, si preoccupano delle reazioni del mondo arabo e pensano che invadere Gaza significherebbe cadere nella trappola tesa da Hamas e dall’Iran. Ci sono ragioni storiche dietro queste posizioni. Così, Berlino (copyright Angela Merkel) ha fatto della sicurezza di Israele la sua «ragion di Stato». Mentre l’Irlanda rivede nella lotta dei palestinesi per avere uno Stato quella propria contro gli occupanti britannici. Quanto al Belgio, memore del suo imbarazzante passato coloniale, al tempo in cui era premier, Michel fu sul punto di riconoscere la Palestina come Stato indipendente.
La terza linea di faglia combina i primi due elementi: la continua polemica tra le capitali dei singoli Stati e le personalità al vertice delle istituzioni, che ha portato diversi premier, non ultimo l’irlandese, a criticare von der Leyen e il suo attivismo, accusandola di non parlare a nome dell’Ue. Secondo alcuni diplomatici, con il suo comportamento la presidente della Commissione avrebbe addirittura compromesso le chance di essere riconfermata. Quanto questa linea di rottura sia profonda, è stato chiaro lunedì scorso al Consiglio dei ministri Ue dove chi c’era racconta di una discussione «polarizzata e altamente emotiva». Detto altrimenti, una totale cacofonia.
Oggi il Consiglio europeo proverà a quadrare il cerchio. Combattere Hamas, premessa indispensabile di pace e sicurezza per Israele, e alleviare le sofferenze di due milioni di palestinesi. La formuletta immaginata «pause umanitarie» (proprio così, al plurale) occuperà ore di discussione. E anche se entrasse nel comunicato, non farebbe alcuna differenza. Se l’Europa guardasse oltre le beghe personali e nazionali, se trovasse una voce sola, se facesse proposte che non siano disconnesse dalla realtà, se infine provasse a formulare una visione per il futuro del Medio Oriente oltre le frasi di rito, allora sì potrebbe ambire ad essere attore geopolitico ascoltato e autorevole. Ma forse è chiedere troppo.