Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
Una donna potrebbe diventare per la prima volta la «signora Presidente» della Commissione europea. Ma il conclave dei leader che dovrebbero guidare l’Europa fuori dai suoi guai si è dimostrato abbondantemente al di sotto del compito
Al quattordicesimo tentativo ce l’hanno fatta. Una donna potrebbe diventare per la prima volta la «signora Presidente» della Commissione europea. Con l’indicazione di Ursula von der Leyen, madre di sette figli, la politica al femminile fa un balzo in avanti, e può rompere uno dei soffitti di cristallo più resistenti al mondo: quello di Palazzo Berlaymont a Bruxelles. Se poi Christine Lagarde prenderà il posto di Mario Draghi alla Eurotower di Francoforte, come da accordi, allora il ticket «rosa» dell’Europa entrerà nella storia. Evviva.
Per l’Italia c’è anche un’altra buona notizia. Per un complesso gioco di sponde, i socialisti hanno candidato David Sassoli, del Pd, come presidente del Parlamento. E siccome il patto era che spettava a loro il posto, è molto probabile che oggi un italiano succederà a un altro italiano (Tajani) nel ruolo di speaker a Strasburgo. Le buone notizie, alla fine dell’incredibile due giorni del vertice europeo, finiscono però qui. Sempre sul filo del fallimento, fratturato in più punti, con un finale contestato, il conclave dei leader che dovrebbero guidare l’Europa fuori dai guai si è dimostrato abbondantemente al di sotto del compito.
Le elezioni del 28 maggio, pur non essendo state vinte dai populisti, non sono state vinte neanche dai partiti storici, popolari e socialisti. Di conseguenza oggi manca un baricentro, e si vede. Ciò rischia di peggiorare, se è possibile, i già gravi problemi di governance che da tempo affliggono l’Unione. Il più grave tra questi è l’assenza del criterio democratico tra i mille che sono stati presi in considerazione nella scelta dei vertici. Cinque anni fa, almeno, si era tentato di stabilire il principio che il candidato del partito con più voti nelle urne sarebbe stato nominato a capo della Commissione, per fare in modo che l’ircocervo europeo assomigliasse un po’ di più alle democrazie nazionali, nelle quali in linea di massima chi vince le elezioni governa. Non era un sistema perfetto: ne vennero fuori una grande coalizione e cinque anni di Juncker. Ma stavolta i candidati alle elezioni sono stati addirittura respinti, sia chi era arrivato primo come il popolare Weber, sia chi era arrivato secondo come il socialista Timmermans, e la scelta è caduta su una ministra tedesca che non era nemmeno candidata. Si capisce la mezza sollevazione degli europarlamentari. In cambio è stato lasciato loro il diritto di eleggere un presidente dell’assemblea di loro scelta, purché socialista. Per questo oggi Sassoli è in pole position. Ma su tutto il resto hanno deciso i governi. E al posto del criterio democratico ne hanno usato altri mille, sovrapposti e intricati in un groviglio sempre più inestricabile: il criterio del mercato politico, per favorire i popolari, consolare i socialisti e compensare i liberali; il criterio della forza degli Stati, con i Grandi che vincono sempre; il criterio geografico Est-Ovest, per placare i ribelli di Visegrád che ormai fanno Europa a sé; e infine quello di genere, un uomo e una donna, l’unico che alla fine ha funzionato bene. Ma così è davvero difficile togliere dalla testa degli europei la cattiva idea che si sono fatti dell’Unione, anche al di là dei suoi effettivi demeriti.
In questo sostanziale insuccesso generale, l’Italia perde di suo. Perde Mario Draghi alla presidenza della Bce, e il tempo ci dirà quanto lo rimpiangeremo; perde Federica Mogherini all’alto commissariato per la politica estera. E se salverà la presidenza del Parlamento ciò non sarà certo dovuto al patto tra i premier. Ora possiamo solo sperare che il commissario che ci spetta di diritto abbia almeno un portafoglio economico importante. Il premier Conte non ha esitato a porre il veto alla prima proposta dell’asse franco-tedesco, sostenendo che non si sarebbe fatto imporre una soluzione franco-tedesca. Ma alla fine ha dato il via a un accordo che prevede una tedesca alla Commissione e una francese alla Banca centrale. E per ottenere questo risultato, Conte si è messo in minoranza lunedì notte schierandosi con il blocco dell’Est. Da Paese fondatore siamo diventati, almeno per una notte e speriamo sia l’ultima, Paese sabotatore. Indipendentemente dalle convinzioni politiche di ciascuno di noi, è intuitivo che si conta di più seduti al tavolo con Berlino e Parigi che a quello con Budapest e Varsavia. Noi ci siamo seduti lì. Non avremo amici ai vertici dell’Europa. La signora von der Leyen è la decana dei ministri della Merkel, praticamente un suo clone, e sarà certo meno autonoma di Juncker nei confronti di Berlino. Ci converrà stare bene attenti anche alla scelta del commissario italiano, perché si può essere certi che l’audizione del Parlamento europeo sarà molto severa, e già una volta abbiamo visto bocciare il nostro candidato (ai tempi di Buttiglione).
L’asse franco-tedesco ha insomma battuto un colpo ieri a Bruxelles. Ma lasciando dietro di sé ferite e tensioni. È resuscitato solo per spartirsi le due cariche più importanti. Ma ha lasciato intatto il vuoto di idee e la divergenza di strategie che impediscono un rilancio del progetto europeo. Molte poltrone e poche soluzioni. È questo oggi, purtroppo, il volto dell’Europa.