19 Settembre 2024

È necessario rivedere il regolamento di Dublino, che vincola il migrante al Paese d’arrivo. Oggi sono i Paesi del gruppo Visegrad i più esposti al flusso di fuggitivi

Se davvero ogni crisi ha in sé pericoli e opportunità, quella dei rifugiati ucraini ne contiene per noi dosi notevoli in egual misura. È impossibile, infatti, non considerare i rischi connessi a un’ondata di profughi senza precedenti nel nostro continente dalla Seconda guerra mondiale in poi. E, tuttavia, sarebbe miope non intravedere il cambio di passo che questo flusso può generare in un quadro paralizzato dai veti quale è, da anni, la politica europea sulle grandi migrazioni. Di fronte a una simile accelerazione della storia, il Consiglio europeo, che in queste ore ha affrontato lo scenario della guerra di Putin quasi in contemporanea con i vertici del G7 e della Nato, s’è ritrovato, enfatizzata nei dossier, una questione a lungo rimossa, che ha da tempo ricadute dirette sul tasso di coesione delle società occidentali e persino sulla tenuta delle nostre democrazie. Il massacro dei civili, coi bombardamenti su scuole e ospedali, ha portato a fuggire dall’Ucraina fra i tre e i quattro milioni di profughi, con proiezioni Ue che prevedono si giunga ai sette milioni, in stragrande maggioranza donne e bambini: in un mese solo da noi ne sono arrivati sessantamila, un numero pari a tutti gli sbarchi in Italia del 2021 che avevano fatto gridare taluni alla ripresa della «immigrazione incontrollata».
Ma la situazione adesso è assai mutata, la mobilitazione internazionale diffusa e la consapevolezza (forse infine raggiunta) che le prime vittime delle guerre sono i civili hanno fatto sì che le braccia restassero (per ora) spalancate all’accoglienza. La differenza più grande riguarda i Paesi del gruppo Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca), i più orientali dell’Unione, i più esposti al pericolo rappresentato da Putin: e i più soggetti all’immenso flusso di rifugiati. Sarebbero loro i primi a patire gli effetti del regolamento di Dublino, che vincola il migrante al Paese d’arrivo (e alla cui riforma si sono sempre opposti quando noi la invocavamo). Sarebbero loro a trovarsi in condizioni assai peggiori delle nostre durante le crisi generate dalle cosiddette primavere arabe degli anni Dieci, se l’Unione non avesse attivato, per la prima volta dalla sua emanazione, la direttiva 2001/55, creata proprio per affrontare afflussi massicci di cittadini stranieri che non possano rientrare nei loro Paesi, soprattutto a causa di guerre, violenze o violazioni dei diritti umani. Con essa si attribuisce agli ucraini una protezione temporanea (ora di un anno, ma si arriverà a tre) grazie alla quale è possibile muoversi, lavorare, ottenere servizi in tutto il territorio Ue: un provvedimento che di fatto sospende per loro gli effetti del regolamento di Dublino.
È dunque il momento, come da risoluzione di maggioranza approvata in queste ore nel Parlamento italiano, per spingere su una riforma radicale e condivisa del Trattato, costringendo i Paesi finora ostili a ragionare sulla ripartizione dei profughi e dei migranti per quote/Paese, sul percorso comune per i rimpatri e il controllo dei flussi, sulla riapertura reale ai permessi di soggiorno per lavoro (bloccati sostanzialmente da anni). Insomma, la crisi contiene una vera opportunità, per noi europei, segnatamente noi europei col Mediterraneo come frontiera: se solo sapremo coglierla.
Contiene tuttavia anche un pericolo ulteriore, già alle viste. Proprio per superare le resistenze di Visegrad, il Consiglio ha lasciato agli Stati membri il potere di decidere se applicare la direttiva o le normative nazionali in materia di protezione. E, soprattutto, ha limitato il diritto alla protezione temporanea alle sole persone «stabilmente residenti» in Ucraina. Bloccata sotto le bombe è rimasta una parte consistente dei cinque milioni di stranieri lì presenti (dato Onu 2020), lavoratori, studenti, richiedenti asilo, altri migranti di breve termine. L’allarme è stato dato dall’Istituto di ricerche Idos: si rischia di costituire due categorie di profughi, serie A e serie B. E si segnalano già molti respingimenti sulla base del colore della pelle. Qualche europarlamentare leghista dal pensiero semplice, diciamo così, ha paventato il rischio che l’Ucraina e il suo inferno diventino «un viatico per tutti quelli che scappano dall’Africa» (sic). Del resto, buona parte della destra mette paletti tra «i profughi veri» (gli ucraini) e quelli «finti» (gli africani), dimenticando che in Africa, in questo momento, è aperta una trentina di conflitti di varia intensità (una dozzina solo nell’area subsahariana), sono attivi numerosi tiranni e scappare dalla guerra civile del Tigrè, dagli Shabaab somali o dai lager libici non è poi così diverso dal fuggire dalle bombe di Putin. Soprattutto è nostro interesse nazionale non dividerci sui profughi e far leva così sull’Europa. Certo, sarebbe un’ipocrisia del politicamente corretto negare che gli ucraini, cristiani, europei e spesso legati a decine di migliaia di connazionali già presenti in Italia, appaiano più facili da integrare. Ma la vera scommessa è, come ha scritto un esperto di migrazioni quale Maurizio Ambrosini, estendere infine queste misure a tutti i rifugiati, di tutte le guerre. Ridisegnare da protagonisti mappe e identikit di chi ha diritto a muoversi in Europa è una partita che, quando questa guerra sarà finita, potrà cambiare il nostro futuro.

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