19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Ernesto Galli della Loggia

La pandemia ha reso evidente la crisi della globalizzazione e ha rilegittimato l’organizzazione dei poteri pubblici e il loro intervento nella sfera sociale


Con gli effetti che produce nella realtà delle cose e nelle mentalità delle persone la pandemia, che da tempo imperversa nel mondo, sta contribuendo potentemente a rendere evidente anche la crisi della globalizzazione. La crisi cioè — se non forse la fine — di quella fase storica che per almeno un trentennio ha dominato la realtà economica e ideologica del nostro pianeta. Sono almeno tre i fattori che stanno segnando la probabile fine del ciclo storico apertosi negli anni 80 del secolo scorso.
Il primo fattore è la definitiva frantumazione dell’ordine internazionale uscito dalla fine «guerra fredda« (1991). Nel declino dell’egemonia americana che allora raggiunse il suo culmine, nuove potenze mondiali e regionali si sono fatte prepotentemente avanti dappertutto — Cina, Russia, Turchia, Iran, India — e altre minori premono in cerca di spazio. Tutte mirano a crearsi zone d’influenza, cercano di espandersi, suscitano conflitti, alterano equilibri, sempre seguendo il proprio esclusivo interesse e infischiandosene di ogni norma, accordo o status quo precedenti. Né d’altro canto la globalizzazione sembra avere prodotto alcuna apprezzabile diffusione della democrazia, mentre il mito della pace — tanto più se «mondiale» — si rivela sempre più un mito.
Anche il secondo fondamento della globalizzazione, il libero scambio — che ebbe il suo simbolo nell’ammissione della Cina comunista nell’ Organizzazione del Commercio Mondiale nel 2001 — ha perduto buona parte del suo consenso. Il libero scambio, infatti, ha determinato sì la crescita economica di alcuni Paesi (molto probabilmente però a scapito di quella di altri), ma ha mostrato un drammatico punto debole. Anzi due. Innanzi tutto dietro il suo schermo e grazie ad esso ha potuto prendere forma l’inquietante progetto di Pechino volto a impadronirsi di punti geografici chiave, di risorse e di tecnologia strategiche dell’economia mondiale, al fine di costruire la propria egemonia planetaria. Così come del resto, bisogna aggiungere, ogni Paese ha cercato in realtà di far girare le cose a proprio esclusivo vantaggio. In secondo luogo, proprio durante la pandemia si è visto quanto aleatorio sia quell’assioma a fondamento del libero scambio secondo il quale la proprietà e la localizzazione geografica delle produzioni sarebbe del tutto irrilevante perché a contare sarebbe solo il loro costo. Ma oggi ci accorgiamo che proprio su questo punto è lecito nutrire più di un dubbio: davvero non ha alcuna importanza, ad esempio, che una fabbrica, mettiamo di vaccini o di mascherine, si trovi in Italia o chissà dove? Che essere in grado o no di produrre in casa propria certi dispositivi elettronici sia indifferente?
Il terzo elemento che induce a pensare che stia finendo il tempo della globalizzazione riguarda il ruolo dello Stato, che la globalizzazione stessa prevedeva e auspicava avviato al declino. Discutibile o meno che sia l’auspicio quel che è certo è che almeno la previsione non si sta rivelando azzeccata. Infatti l’arrivo dei tempi difficili portati dall’epidemia ha obbligato tutti a rivolgersi allo Stato: per sperare di essere curati, per avere indicazioni su che cosa fare, per ottenere aiuti di ogni tipo, per immaginare un rilancio dello sviluppo economico. Sotto gli occhi increduli di molti lo Stato, l’organizzazione dei pubblici poteri, il loro intervento nella sfera sociale, stanno oggi ricevendo in Occidente una fortissima rilegittimazione ideologica da cui sembra assai difficile che domani si possa tornare indietro. Tanto più che, sopraggiunta l’emergenza, l’intera trama del multilateralismo e delle organizzazioni internazionali — in particolare quella di nostro maggiore interesse, l’Unione Europea — non hanno mostrato certo né una grande efficienza né un alto tasso di compattezza e di solidarietà. Come punto di riferimento è rimasto in piedi bene o male solo lo Stato: e non dispiaccia a nessuno se per Stato s’intende ovviamente lo Stato nazionale.
Se le cose fin qui dette sono vere esse significano un fatto molto importante: la riproposizione con forza del tema della sovranità e del suo ovvio intreccio con la politica. Il tema cioè della capacità propria dello Stato di esercitare il potere al servizio di un progetto collettivo. Un potere che può trovare un limite solo in forza di una propria autonoma decisione: un potere sovrano dello Stato nazionale che nei regimi democratici come il nostro equivale alla sovranità del popolo, fonte attraverso i suoi rappresentanti di tutte le decisioni e azioni dello Stato stesso.
Un tale cambiamento di prospettiva non può che avere conseguenze positive sulla discussione politica italiana, negli ultimi anni avvitatasi in maniera in buona parte surrettizia proprio intorno al tema della sovranità. Con il centro-sinistra rivolto a sottolineare la positività di qualunque cessione o esercizio attenuato della sovranità da parte dell’Italia — quasi si trattasse di chissà quale manifestazione di una superiore civiltà — e la destra invece belluinamente contro, intendendosela con i peggiori impresentabili della scena europea e perciò attirandosi l’accusa di «sovranismo»: che ormai nel lessico del perbenismo ideologico suona più o meno come sinonimo di nazismo.
Ma i tempi suggeriscono di convincersi che ormai non è più questione di sovranismo no o sovranismo sì. È questione solo di sovranità. Che oggi più che mai appare necessario riformulare per gli anni che abbiamo davanti un ruolo attivo e propulsivo a tutto campo dello Stato nazionale e della sua volontà politica. Ciò che per un verso rende urgentissima la riforma di tutte le sue amministrazioni e l’opposizione più decisa alla frantumazione regionalistica, e per un altro ci deve spingere a mantenere saldamente tutti i nostri legami europei e atlantici ma mantenendo fermo un presupposto che non sempre in passato abbiamo tenuto presente. E cioè che venga rispettata in maniera rigorosa una condizione di eguaglianza e di reciprocità: senza puntigliosità ragionieristiche ma con un’avveduta risolutezza.

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