Tutti vogliamo la fine della guerra. Però la politica deve decidere tempi, modi, confini, risorse e scenari
L’uomo non ha inventato la guerra: ha inventato la pace. La più grande scoperta della storia. Il conflitto è ovunque, la natura, la clava, il codice genetico, la vita stessa: poi qualcuno, nella notte dei tempi, suggerì i confini e un po’ di regole, meritava il Nobel della Pace qualche millennio prima. La parola, non a caso, ha un’antica (antichissima) radice indoeuropea, pak/pag, che vuol dire fissare, legare, pattuire, unire. Anche conficcare. Come per un paletto che definisce i limiti, le frontiere, il senso di una concordia possibile. Ma solo l’ipocrisia sulla pace è ancestrale come la pace.Che non è la tregua senza aggettivi, cioè il dominio del più forte: io qui, tu lì, zitto e basta, io faccio l’accordo con Putin e tu sparisci. La pace è giusta o non è nulla. È il rispetto delle leggi e (addirittura) dell’umanità oppure può diventare la consacrazione di un sopruso. È la fiducia nella verità su aggressori e aggrediti o è la strada dei «fatti relativi» imposta dai nuovi signori del mondo.
Vogliamo tutti la fine della guerra. Tra la Russia che l’ha scatenata e l’Ucraina che l’ha subìta: e non solo lì. Va bene anche andare in piazza per chiederla, visto che i partiti italiani hanno aperto la corsa a chi grida più forte
Ma il vero passaggio, per chi fa politica, sarebbe spiegare «quale» tregua: tempi, modi, territori, risorse, scenari. La pace giusta, e ci risiamo, oppure la pace della matita, firmata da Trump e Putin senza l’Europa e senza Kiev: un righello, il nuovo confine è disegnato. Con precedenti illustri. Il Papa che divide in due l’America latina, il Brasile al Portogallo e il resto alla Spagna, facile facile. Il congresso di Vienna che restaura frontiere di cartapesta. Il trattato di Versailles che chiude la Prima guerra mondiale e porta diritto alla Seconda umiliando la Germania.La stessa Yalta che ha appena compiuto 80 anni con l’Europa dell’Est consegnata a Stalin e la Russia che adesso, quasi quasi, perché no.
La pace del pugno. Che è pace spietata. Anche nell’antica Grecia e nell’antica Roma. Quando Tucidide racconta la guerra, i Meli chiedono giustizia per la loro isoletta, ma gli Ateniesi preparano lo sterminio: «Noi crediamo che per legge di natura chi è più forte comandi. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita, ma perché l’abbiamo ricevuta e la lasceremo valida per tutta l’eternità». Violenti, profetici, attuali, 2500 anni dopo. Così come uno storico latino, Tacito, dà voce al «barbaro» Calgaco, che resiste ai Romani e pronuncia una delle frasi più famose della storia: ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. Dove fanno il deserto, lo chiamano pace. Sembra l’Ucraina. Le macerie in superficie, le terre rare sotto il suolo, la stessa tregua imposta dai dominatori antichi, che cercavano sudditi e non più alleati.
Ma la storia insegna. A peggiorare. Ateniesi e Romani non cambiavano i fatti: siamo i più forti e vi conquistiamo, fine delle ostilità. Putin da sempre e Trump (più Musk) da due mesi hanno abbattuto un altro muro: quello che resta della realtà condivisa. Zelensky che è diventato l’aggressore, l’Europa che sembra la responsabile di tutto, gli spettri di Orwell che riappaiono dalle tenebre, la verità sommersa dal flusso dei social che diventa verità percepita. Le parole più sagge sono di Liliana Segre, ancora una volta: «Non dimentico i piccoli cimiteri che costeggiano la linea gotica, i cimiteri dei soldati americani che sono morti per liberarci». Due volte, in due guerre: per salvare i popoli dell’Europa. E quelle croci sono un fatto, esistono, sono reali.
Non solo. Nella tragedia-farsa dello Studio Ovale in diretta tv, Trump e Vance hanno stracciato un pezzo di Occidente che viene prima della politica, della diplomazia e anche della democrazia: l’umanità, il valore assoluto dell’umanità. Neppure una parola sui morti, i feriti, il dolore. Di qui il «senso di vergogna», come ha scritto lunedì Luciano Fontana. Vergogna ripensando alle radici e al senso della nostra cultura, da Terenzio a San Paolo a Dante, perché «viver come bruti» è l’opposto esatto della civiltà (faticosamente) costruita e ricostruita. Amleto che si nutre di rancore e di vendetta, scrive Shakespeare, «ha il colore della notte».
Nel mondo che vive con dieci sussulti al giorno, ieri i dazi della Casa Bianca hanno affondato Wall Street (bruciando i guadagni post-elezioni), Canada e Messico hanno perso la pazienza con gli Stati Uniti, Ursula von der Leyen ha annunciato 800 miliardi per la difesa europea (impensabile fino a pochi giorni fa), Marine Le Pen ha attaccato Donald perché ha bloccato gli aiuti a Kiev, così come l’inglese populista Farage si è imbestialito contro l’americano populista Vance (quando è troppo, è troppo). Ma anche, forse soprattutto, Zelensky ha aperto alla fine della guerra, ha detto che è pronto a «lavorare sotto la forte leadership di Trump» e vuole firmare subito l’accordo per le terre rare (il business prima ancora che si fermino le armi, un’altra novità assoluta). Come se avesse, pure lui, abbandonato l’idea della tregua equilibrata per rassegnarsi alla tregua dei forti. Un infarto geopolitico ogni mezz’ora. E la notte è ancora lunga.
Saranno i prossimi giorni a dirci «quanto» vorranno prevalere Trump e Putin, «quanto» reggeranno gli equilibri economici planetari, «quanto» saprà reagire l’Europa, che almeno mostra i primi segnali di risveglio e di autostima. Ma senza pace giusta non c’è pace duratura: è una questione di etica e anche di convenienza. Il mondo è diventato più fragile, questo si è capito. Il meteorite 2024 YR4 ha la possibilità teorica (ma quasi nulla) di colpire la Terra nel dicembre del 2032. È più alta la probabilità che l’umanità sia l’asteroide di sé stessa.