19 Settembre 2024

Longa manus del putinismo,la Brigata Wagner ne rappresenta la più efficace e spregiudicata intuizione geopolitica: offrire a governi o fazioni di condurre operazioni militari contro il rivale locale senza nessun vincolo dal punto di vista dei diritti umani

Lo scontro di fazioni militari e potentati criminali che sta scaraventando la Russia in un moderno Medioevo provoca, tra gli altri, un contraccolpo che ci riguarda molto da vicino. Mai come in questi giorni sono emerse con chiarezza le manovre di influenza, le operazioni di bassa macelleria e, in generale, le mosse predatorie ed egemoniche della brigata Wagner sul quadrante geografico e strategico che più ci coinvolge: l’Africa.
Dalla Libia alla Repubblica Centrafricana, dal Mali al Burkina Faso, dall’Eritrea al Sudan e in un’altra mezza dozzina di Stati, i miliziani di Prigozhin hanno recitato da almeno sei anni più parti in commedia: intervento sul campo e formazione dei combattenti locali, consulenza politica e sostegno logistico, esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali, accaparramento di minerali preziosi come moneta di scambio. Longa manus del putinismo, i wagneriti ne rappresentano la più efficace e spregiudicata intuizione geopolitica: di fronte all’inanità delle azioni occidentali e al conseguente vuoto che, a Washington come a Bruxelles, viene di tanto in tanto riempito dalla cattiva idea di far piovere miliardi fuori controllo nelle tasche di qualche tirannello autoctono, lo zar di Mosca ha fatto della sua compagnia della morte un perfetto uovo di Colombo. Secondo gli analisti dell’Osservatorio sul Mediterraneo, l’obiettivo dichiarato nell’impiego della Wagner è stato «porre fine ai complessi conflitti civili presenti nei Paesi africani», offrendo «ai governi in difficoltà — o alle fazioni più propense a un soccorso russo — di condurre operazioni militari contro il rivale locale senza nessun tipo di vincolo dal punto di vista dei diritti umani», senza riguardo per vittime civili o pluralismo politico.
Semplice come la strage di Moura, in quel Mali che ha chiesto ai peacekeeping Onu di ritirarsi scegliendo la Wagner quale unico partner internazionale. Rapido, perché è questo il vantaggio di un dittatore e dei suoi bravi: non rendicontare mai, né alla propria coscienza né all’opinione pubblica. Funzionale, così tanto da vagheggiare addirittura una «confederazione» di Stati antioccidentali in Africa, un network canaglia fondato su armi, diamanti e petrolio e protetto da migliaia di mercenari russi. Ci siamo distratti parecchio, nel cortile di casa nostra, gravati da secolari sensi di colpa postcoloniali. «Wagner fornisce sicurezza e noi offriamo libri di testo», ha spiegato al Washington Post un ricercatore senior del Centro studi strategici internazionali, Cameron Hudson.
Tutto questo può cambiare, forse. Opinionisti e analisti di mezzo mondo si interrogano sul destino di Prigozhin e della sua creatura e, mai come ora, sul futuro dell’avventura africana. Per Le Monde «l’Africa è tra le poste in gioco dell’insubordinazione wagneriana», Die Presse si domanda «cosa sarà dell’impero Wagner?». Tutti si chiedono: si cambia registro? Putin si terrà stretti i suoi mercenari o nasceranno magari cinque o sei «mini-Wagner» autonomizzate da Mosca? Biden lascia aperta ogni opzione e congela sanzioni che aveva pronte sugli affari wagneriti nella Repubblica Centrafricana, tentando di portare nel campo occidentale il presidente Touadéra. Un primo passo contro l’entropia incombente.
La partita è vitale. E toccherà anche all’Italia giocarla, interrompendo la tendenza ad astenersi, manifestatasi ormai da anni tra i nostri governanti, fatta eccezione per Silvio Berlusconi, nel suo pittoresco rapporto con Gheddafi, e per Marco Minniti, con lo sfortunato tentativo di fare della Libia un partner plausibile. Per tali motivi è quanto mai opportuno guardare in questo periodo con grande attenzione al piano Mattei, annunciato da Giorgia Meloni sin dal suo discorso di insediamento alla Camera e così battezzato in onore del padre dell’Eni e della sua visionaria politica africana. Il piano, in verità non ancora esplicitato con chiarezza, muove da un’idea ragionevole: trasformare due problemi, come le migrazioni e la crisi energetica, in un’opportunità per il Paese; e da un’ambizione condivisibile: riassegnare all’Italia un ruolo geopolitico su uno scacchiere per noi vitale tramite un rapporto paritario e non più predatorio coi Paesi africani. Rispetto allo schema dei wagneriti, una rivoluzione. Ne conseguono mosse significative già in alcune missioni istituzionali della premier nel 2023, in Algeria, Libia ed Etiopia, prime basi di una iniziativa che, attraverso l’Eni, dovrebbe abbracciare tutto il Mediterraneo, toccando anche l’Asia, con l’Azerbaigian: facendo dell’Italia il grande polo energetico dell’area e trasformando i viaggi della disperazione in flussi controllati e preziosi per la nostra economia. «Non c’è una slide, è un piano che non esiste», ha chiosato qualche opinionista: è un’invenzione. «Non è un’invenzione, è un’intenzione», mi spiega una fonte assai prossima a Palazzo Chigi, ponendo l’accento sulla volontà di Meloni di portare avanti la sfida. La premier, che ha promesso i dettagli per il summit Italia-Africa del prossimo autunno, ne ha parlato come d’un «modello virtuoso di collaborazione tra Unione europea e nazioni africane», mettendo nel mirino innanzitutto il radicalismo jihadista. Ma un simile volano sarebbe più che mai utile a strappare l’Africa al giogo della Wagner o dei suoi eredi. Nei prossimi anni si definirà nel continente più giovane e povero del pianeta la sfida tra due modelli, compagnie di ventura contro stato di diritto. È ovviamente assai più facile vendere in un sol pacchetto sicurezza e ferocia, ben più complicato è farlo importando «rule of law». Serve comunque la forza, sia pure una forza agganciata a opzioni multilaterali e diritto internazionale. Sarà questo, al di là degli scetticismi di fazione o di maniera, il punto critico del piano Mattei come di qualsiasi «piano» europeo per l’Africa: il nostro divorzio programmatico da ogni dimensione bellica. Finché l’Europa non guarirà dal suo nanismo militare, avremo da offrire solo (ottimi) libri di testo.

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