Dobbiamo comprendere che non sono necessarie solo le risorse umane per la ricerca scientifica ma anche quelle tecniche e amministrative di livello europeo
Gli ultimi mesi del 2021 meritano una riflessione sull’anno trascorso. Un assetto politico più ampio nel sostegno all’azione di governo, la campagna di vaccinazione, la ripresa dell’economia e il piano europeo di ripresa e resilienza che diventa realtà, tutti questi fattori hanno concorso a farci intravvedere non solo una ritrovata normalità ma anche l’opportunità di indirizzare il Paese verso un sentiero di una crescita strutturale che manca all’Italia da oltre un decennio.
Nello specifico, molte speranze sono ora riposte sul Recovery plan che, all’interno delle sue sei missioni, si pone l’obiettivo di indirizzare e rilanciare gli investimenti pubblici dopo un decennio di trend discendente. Coscientemente, il piano comporta un consumo di risorse finanziarie affiancato da un pacchetto di riforme. Ora che la prima frazione di finanziamenti è giunta dall’Europa al nostro Paese la questione è la «messa a terra» di tutte le progettualità previste dal piano. Diventa cruciale il tema delle risorse umane: se la progettazione ha convinto l’Europa, il difficile viene ora che dai «disegni« occorre passare al «cantiere» e giungere alla «fine lavori». La volontà politica, per quanto indispensabile e oggi molto visibile ai più, rischia di non essere sufficiente se il «sistema Italia» non compie un salto quantico nelle competenze, nelle tecniche e nelle consuetudini dell’amministrare pubblico.
Prendiamo l’esempio della quarta missione del piano di recovery, quella che comprende Università e Ricerca. La recente pubblicazione delle Linee guida sulle quattro iniziative di sistema (partenariati di ricerca, infrastrutture di ricerca e innovative, centri nazionali ed ecosistemi dell’innovazione) ha evidenziato le grandi novità del Pnrr. Non più solamente iniziative bottom up di natura soggettiva (in capo a singoli ricercatori, singoli gruppi e singole università) che sono presenti in altri capitoli del piano ma anche un vero e proprio percorso sistemico che chiama in causa il lavoro comune di una moltitudine di attori, pubblici e privati, con il fine di creare e/o rafforzare intere filiere della ricerca e, al contempo, rafforzare il tessuto industriale in tali catene del valore se non anche crearne nuove laddove la scienza dischiude nuovi sentieri.
Ai singoli attori, in particolare alle università e agli enti pubblici di ricerca è richiesto uno sforzo sistemico da due punti di vista: a) lavorare insieme cercando le vie migliori per la valorizzazione delle proprie competenze evitando campanilismi e sindromi da autosufficienza; b) comprendere che le risorse umane necessarie non sono solo per la ricerca scientifica ma anche e indispensabilmente quelle tecniche e amministrative.
Mentre per il primo punto si spera nella lungimiranza dei vertici delle istituzioni scientifiche, ora che le risorse finanziarie non mancano, per il secondo serve una presa di coscienza e un piano d’azione. Si condivida con l’Europa, sotto egida del ministero, un percorso, acquisendo competenze europee in materia di amministrazione e gestione dei progetti e trasferendole nel nostro sistema. Al tempo stesso si formino gli amministratori giovani e di buona volontà che già lavorano nelle nostre istituzioni. Anche in questo secondo aspetto l’idea dell’autosufficienza è rischiosissima e può inficiare il successo delle stesse iniziative di ricerca. Soprattutto, non rende sostenibile strutturalmente quanto permette di fare oggi il piano di recovery. Il come fare a livello di singola istituzione può dipendere dalla dimensione, dalla localizzazione e da altri fattori. Da questo punto di vista, le università e gli enti pubblici di ricerca meno robusti possono consorziarsi creando unità di scopo che, dopo la «palestra» del piano, rafforzino definitivamente l’intero sistema.
Si tratta, in altre parole, non già di cedere sovranità ma di condividerne una parte. Abbiamo detto condividere e non cedere nel senso che si tratta di acquisire le migliori pratiche europee e calarle nel contesto delle scelte nazionali affinché esse possano tradursi in progetti e azioni a impatto positivo e strutturale.
L’occasione che viene offerta sul piano dei finanziamenti è irripetibile. È, infatti, più probabile una seconda «austerity» nel senso di richiamo alla disciplina di bilancio che un secondo Recovery plan. Perciò quello di oggi deve avere successo. Condividere sovranità con l’Europa, potenziando la nostra struttura di competenze nella pubblica amministrazione a tutti i livelli è importante tanto quanto la realizzazione scientifica delle iniziative. E anche per questo il tempo disponibile non è molto.