Fonte: La Stampa
di Alessandro Barbera
Montepaschi affonda (-13,8%) trascinando tutti i principali istituti
Monte dei Paschi -13,8 per cento. E poi Bper (-6,58), Banco Popolare (-5,5), Bpm -(5,04), Unicredit (-4,5), Intesa San Paolo (-3,2). Chiamatelo effetto referendum, o come preferite. Ormai il dibattito è così sclerotizzato da spingersi fino agli indici di Borsa. Tesi del no: i mercati scontano già le probabili dimissioni di Renzi, dunque il giorno dopo non succederà nulla. Tesi del sì: i mercati si preparano alla tempesta perfetta ed ecco perché occorre salvare la continuità di governo. I fatti lasciano poco spazio alle interpretazioni: più si avvicina il fatidico 4 dicembre, più aumenta il numero di investitori in fuga o in cerca facili guadagni. I titoli bancari sono un facile boccone: benché non siano tutte nelle stesse condizioni, è noto che alcune di loro sono più deboli e gravate da antichi problemi. Mps ad esempio: va a caccia di cinque miliardi, peccato lo faccia dopo aver bruciato due aumenti di capitale, uno dei quali sostenuto da un robusto prestito pubblico. Di qui la fatal domanda: che accadrà il giorno dopo l’eventuale crisi di governo? Dopo aver paventato il rischio di governo tecnico, il premier si rifà cauto: «Sul governo del dopo non dico nulla». Secondo alcuni il Quirinale l’avrebbe nuovamente invitato alla cautela: il -1,8 per cento di Piazza Affari è un ottimo argomento.
Il Financial Times conta almeno otto banche a rischio, fra cui la più europea di tutte, Unicredit, anch’essa a caccia di capitali freschi. «Forse era lunedì e non avevano tante cose da dire», risponde stizzito il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan, sempre più costretto nello scomodo ruolo di papabile successore di Renzi in caso di vittoria del no. Il fatto che alcune banche detengano un pezzo di debito italiano contribuisce ad alimentare i dubbi. L’ombrello protettivo della Banca centrale europea c’è, resterà anche dopo l’8 dicembre e comunque vada eviterà quell’aumento incontrollato degli spread che nel 2011 ci portò a un passo dal baratro finanziario. Ma non è abbastanza per mettere al riparo le banche ed evitare l’avvitarsi di rischio sovrano e rischio bancario. «La questione delle banche è fuori dalle nostre competenze», dice Mario Draghi in audizione al Parlamento europeo. «Ci sono regole e direttive europee in piedi». Il riferimento è alle regole del bail-in che in caso di fallimento di una banca azzera anzitutto azioni e obbligazioni. È un’altra delle differenze sostanziali con il 2011: allora quelle regole non erano in vigore.
A Bruxelles gli eurodeputati tentano di trascinare Draghi nel dibattito italiano, ma il governatore Bce evita le trappole. «No comment sulle conseguenze del referendum, né sugli eventuali effetti sulle banche». Un paio di cose le dice, una – per così dire – benevola col governo, l’altra meno: «Gli ultimi eventi confermano che le incertezze politiche sono la principale fonte di instabilità». Ad esempio la Brexit il cui negoziato «dovrebbe iniziare prima possibile». O i rischi di medio termine legati agli andamenti dei prezzi immobiliari in otto Paesi europei, sei dei quali dell’area euro come Austria, Belgio e Olanda. La seconda osservazione è un avvertimento: «Il debito italiano è sostenibile». Ma benché l’Italia sia «uno dei Paesi con il più alto avanzo primario» «non è l’ora di dormire sugli allori» perché «vulnerabile agli shock». Padoan dice che quel debito si è «stabilizzato», ma il problema è sempre quello, poco cambia se vinceranno i sì o no.