29 Gennaio 2025

I decreti e le risposte (difficili) alle paure. Il presidente americanofirma e così realizza, se il congresso lo seguirà, la sua rivoluzione populistica

Tutto sta in quella penna. O, meglio, nella sua plateale esibizione. Il simbolo del tempo che ci attende è in quella sequenza infinita di firme con le quali Donald Trump ha voluto dare ragione a quanti, tra noi, pensavano e scrivevano che il secondo mandato non sarebbe stato come il primo. Prendendolo sul serio, e non pensando fosse un giullare, non era difficile prevedere che la sua seconda esperienza alla Casa Bianca sarebbe stata diversa dalla prima e che le promesse elettorali non erano bravate estremiste per conquistar voti ma sarebbero diventate, almeno in intenzioni ed atti, delle decisioni.
Quella penna, quei faldoni di documenti esibiti a favore di telecamera sulla scrivania dello studio ovale raccontano di un nuovo tempo, tutto da decifrare, della vita democratica degli Stati Uniti. E non solo. Con quella penna Trump ha assunto, a nome del suo Paese, posizioni e decisioni che hanno capovolto gli indirizzi, su varie materie, di molte amministrazioni precedenti, sia repubblicane che democratiche. Per memoria: ritiro degli Usa dagli accordi sul clima di Parigi. Gli Stati Uniti sono, con la Cina, il maggiore emettitore di gas serra in atmosfera. Il loro disimpegno può fortemente compromettere il raggiungimento degli obiettivi di contenimento del riscaldamento globale. Va forse ricordato, a tutela delle generazioni future, che gli ultimi tre decenni sono stati i più inquinanti dei 200 anni precedenti, che le previsioni, secondo l’ultimo rapporto della Convenzione delle Nazioni Unite, sono che entro la fine del secolo la temperatura del globo aumenterà di 2,7 gradi. Balle catastrofiste? Andrebbe detto ai diciassette milioni di esseri umani che sono stati costretti a fuggire dalla loro terra che fuggono per siccità e alluvioni. Per la penna di Trump l’emergenza invece è consentire trivellazioni a tutto spiano: «Drill, baby, drill». Poi l’uscita dall’Organizzazione mondiale della sanità, l’annuncio di mire annessionistiche del canale di Panama, della Groenlandia, la mutazione di nome del Golfo del Messico, la grazia per 1.500 partecipanti ai drammatici eventi del 6 gennaio 2021 e persino per il fondatore di un importante sito che nel dark web, ha consentito la vendita di armi e droga; «Dio, patria e famiglia». Poi, in omaggio alla rigida struttura binaria della civiltà digitale, l’annuncio che d’ora in poi esisteranno, per firma presidenziale, solo due sessi. Infine la diffusione della foto con gli immigrati in catena che si avviano verso l’aereo che li rimpatrierà, la sospensione persino dei programmi per i richiedenti asilo, lo stato d’emergenza al confine del Messico, con quello che ne conseguirà. Il tutto definito con orgoglio smemorato, «una grande deportazione di massa». Si possono aggiungere i dazi e il resto.
Tutto con una penna, tutto in pochi giorni. Bisogna ricordare che molti presidenti hanno utilizzato lo strumento degli ordini esecutivi, non solo Trump. Ma la valenza plateale del gesto della firma del tycoon repubblicano è qualcosa di più, ha un significato rivolto urbi et orbi. Sta a dire che, per fare qualcosa, serve e basta una penna; che se ti impantani nella gelatina delle commissioni del congresso, nei tempi delle aule parlamentari, nelle faide tra partiti e correnti, non ne uscirai mai.Quella penna è la testimonianza pericolosa di un problema reale: l’afasia delle democrazie, la frizione tra la lentezza delle procedure e la velocità della società digitale. Se la democrazia non troverà un modo per diventare più veloce e trasparente alla fine sarà travolta dall’inchiostro, tutto di un colore, delle penne di presidenti o nuovi zar che del resto, forti di consenso mediatico presso l’opinione pubblica, si disinteressano esplicitamente di regole ed equilibri.
Trump firma e così realizza, vedremo se il congresso lo seguirà, la sua rivoluzione populistica.
Ma l’opposizione, la cultura democratica, cosa fa di fronte all’uragano provocato da queste decisioni? Protesta, e va bene. Ma poi? Ha capito o no che tutti i temi sui quali Trump ha conquistato, almeno per ora, l’opinione pubblica, a cominciare dai giovani e dagli strati più deboli della popolazione, meritano risposte nuove che non deridano paure e ansie ma avanzino soluzioni chiare, ispirate da un sistema di valori opposto a quello del sovranismo populista, ma capaci di parlare al cuore del popolo profondo? È facile fare un’intervista per condannare Trump, ma non basta. Bisogna convincere milioni di esseri umani della giustezza di proposte alternative, chiare e risolutive. Il tema della sicurezza personale, il governo dei flussi migratori, il superamento del politicamente corretto come recinto asfissiante, la riforma delle istituzioni per renderle più funzionanti devono essere parte di un programma che contenga la difesa e la conquista di nuovi diritti, a partire da quelli sociali, dalla valorizzazione della formazione, del sapere, del pluralismo, la difesa del multilateralismo. Lasciare temi popolari a questa destra significa spalancare porte e finestre alla deriva autoritaria che essa stessa non nasconde e che tutti dovrebbero riconoscere, senza la tendenza ricorrente a sistemare le sedie a sdraio sul Titanic. Trump ha preso tre milioni di voti in più del 2020, ma i democratici ne hanno perduti sei e non è certo dipeso solo dal candidato.
Se vuole, come è possibile, tornare a conquistare consenso, il pensiero democratico deve trovare soluzioni nuove, armoniche con la sua identità, capaci di parlare alle inedite forme di disagio, specie tra i più deboli.
È il tema di cento anni fa, in fondo.
Altrimenti non resterà che una penna, con il suo ambiguo messaggio.

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