Dobbiamo analizzare effetti e pericoli di questa immensa e veloce rivoluzione digitale, anche sulla democrazia
Sto scrivendo questo articolo usando la tastiera di un computer. Con il mouse mi sposto e con la fatica del movimento di un dito, l’indice, posso accedere a una messe infinita di conoscenze che mi saranno utili per il testo. Se dimentico uno spazio nella punteggiatura il correttore, con silenziosa gentilezza, mi segnala in blu l’errore. Mentre scrivo chiedo a qualcuno che non c’è di selezionarmi e immettere nella mia stanza la musica che più mi aiuta a concentrarmi: Coleman Hawkins, Charlie Parker, Charles Lloyd. A farlo è una voce che sembra praticare virtù in estinzione, come la cortesia e l’efficienza.
«Her» mostra sembianze da essere umano, non essendolo. Spesso accade il contrario.
So bene che questa immensa e veloce rivoluzione digitale — la terza dell’epoca moderna dopo quella agricola e quella industriale — ha enormemente migliorato il nostro modo di vivere, di comunicare, di curarci, di sapere. Con un solo oggetto, il telefono, possiamo compiere una miriade di compiti che ieri necessitavano tempo, spostamenti, fatica. Il nostro cellulare è banca, giornale, medico, parco giochi, televisore, cinema, negozio, ufficio postale, medico, enciclopedia, consulente fiscale, personal trainer…
Tutto gratis, tutto subito.
Ecco. Qui è il problema.
Le automobili mi piacciono, sono utili. Ma nel corso del tempo l’umanità, proprio grazie alla scienza, è riuscita ad aumentarne la sicurezza, a ridurne l’inquinamento, a farle essere strumento disciplinato dai valori umani.
Siamo sicuri sia così per la seducente macchina mondiale della società digitale? Parlarne è rischioso. Si trovano sempre, come succedeva con la televisione, gli apocalittici e gli integrati.
Ma bisogna farlo, senza timidezze. Perché l’Infocrazia, così la chiama Byung-Chul Han, in un prezioso libro pubblicato da Einaudi, sta mutandoci radicalmente.
Le conseguenze antropologiche della più grande e invasiva mutazione del vivere umano si misureranno nel tempo e riguarderanno il nostro modo di relazionarci con l’altro e con la comunità. L’essenza, cioè, della nostra esistenza.
Ciò che ci sembra gratis in realtà è remunerato dal profilo che gli algoritmi fissano della nostra esistenza, secondo per secondo, gesto per gesto. Dai nostri click, il gesto più usato dal genere umano nell’intero globo, le grandi compagnie estraggono valore per profitti astronomici.
Ma non si limitano a conoscerci, passivamente; intervengono attivamente suggerendoci amici o facendo precipitare sul nostro schermo quelle informazioni che sanno corrispondere al nostro profilo di genere, cultura, religione, età, religione, preferenza sessuale o sportiva.
Tutto questo ha a che fare con la democrazia e la libertà? Come mai, da quando la rivoluzione digitale si è pienamente affermata, il numero delle democrazie è diminuito e sono cresciuti, ovunque, soggetti che hanno vinto le elezioni sulla base di logiche avverse alle regole e dei principi della libertà e del pluralismo?
L’assalto al Campidoglio di Washington da parte di gente istigata dall’alto è stata, nella sua spaventosa drammaticità, la fotografia più nitida del cortocircuito tra democrazia e società tecnologica.
Sostiene nel suo libro il filosofo coreano che la natura autoritaria del sistema è racchiusa nella sua seduttività e nella sua strutturale capacità di rinchiudere i contemporanei in una dimensione di assoluta solitudine, mascherata dalla costante connessione. Citando Foucault dice: «La solitudine è la condizione prima della sottomissione totale».
E poi aggiunge: «Nel regime dell’informazione gli esseri umani non si sentono sorvegliati ma liberi. Il dominio si compie nel momento in cui libertà e sorveglianza coincidono».
E se fosse proprio così? Se una società che ha accumulato un potere invasivo senza precedenti nell’esistenza umana, consegnandolo nelle mani di cinque gruppi globali, postulasse un assetto semplificato della decisione pubblica, una riduzione sistematica della complessità che favorisce proprio la radicalizzazione che abbiamo conosciuto e vissuto in questo tempo della storia?
Anche le false notizie, già ora antenate appassite delle possibilità inedite che l’intelligenza artificiale genera di costruzione di «finta realtà», sono funzionali al dogma della società digitale: la velocità. Sulla base della carica emotiva di notizie sparate in rete e non controllate, si generano reazioni di ogni tipo. Il complottismo è figlio della segmentazione informativa, della logica dello «Strano ma vero» che è trasvolata dalle pagine dei giornali di enigmistica al sistema generale del sapere.
Scrive Byung-Chul Han: «Le informazioni hanno un ristretto margine d’attualità: manca loro la stabilità temporale, in quanto vivono del “fascino della sorpresa”. A causa della loro instabilità temporale esse frammentano la percezione: gettano la realtà in un “vortice permanente di attualità”. È impossibile soffermarsi sulle informazioni: così, esse mettono in agitazione il sistema cognitivo. Le pratiche cognitive temporalmente intensive, come il sapere, l’esperienza e la conoscenza, sono rimosse dall’obbligo all’accelerazione tipico delle informazioni». I tweet hanno sostituito i discorsi: quanto tempo è che non se ne ricorda uno di rilievo?
Veloci, sempre più veloci. Ma come un aereo senza controllo. In una società in cui il frammento si sostituisce al racconto, in cui tutto ciò che è razionale e complesso sembra inaccettabile o inutile, si fanno strada due fenomeni: la forza del populismo di ogni tipo, che agisce sull’emotività e sulla suggestione e la permanente instabilità dei governi. Il linguaggio subliminale della società digitale, nella sua velocità, divora ogni cosa e ogni protagonista. Tutto, in breve tempo, appare vecchio, usurato, consumato. Anche chi guida il potere. Di qui la caducità dei governi democratici e la stabilità di quelli che si fondano sulla autocrazia che questo problema risolve in via disciplinare.
Come la «Her» che accompagna soavemente i miei gusti musicali, esistono milioni di voci non umane, generate da social bot che immettono costantemente in rete i loro messaggi, spesso tracimanti odio e intolleranza. Non esistono nella realtà, ma condizionano lo spirito pubblico e le azioni dei decisori.
Esiste infine un altro tema, per me vitale, la presenza dell’Altro nella nostra vita. Vi è mai capitato che gli algoritmi vi suggerissero come «amico» qualcuno che abbia opinioni diverse dalle vostre? Veniamo spinti a considerare l’Altro una disarmonia, un incidente se non un nemico da rimuovere. Se il proprio pubblico di riferimento è rappresentato dai propri simili, l’Altro sarà sempre qualcuno fuori dal recinto.
Dice Byung-Chul Han: «L’Altro è in sparizione… L’espulsione dell’altro rafforza la costrizione auto-propagandistica a indottrinare sé stessi con le proprie idee… La crisi della democrazia è in primo luogo crisi dell’ascolto».
Amare le tecnologie non significa non analizzare pericoli ed effetti. Anche sulla principale e fondamentale conquista della nostra vita: la democrazia.
E discuterne, ascoltandosi.