Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
L’Unione europea dice di voler costituire forze armate comuni senza stabilire preliminarmente, però, chi avrà il potere di decidere come e dove impiegarle e attraverso quale procedura
Alla fine la brutale evidenza dei fatti ha avuto la meglio e nei giorni scorsi i vertici dell’Unione europea e dei maggiori Stati che la compongono hanno dichiarato praticamente all’unanimità che è giunta l’ora che la Ue abbia un esercito comune (e anche un’intelligence comune, si sono spinti a dire). Un esercito — sembra di capire — concepito non già per le cosiddette «missioni di pace» — come quelle che i vari eserciti europei conducono da decenni, coordinati ma ognuno per proprio conto e con non eccelsi risultati — bensì per fare ciò a cui da alcuni millenni servono gli eserciti: per fare la guerra o minacciarla.
Ma è difficile, assai difficile, che alle intenzioni seguano i fatti. Per una ragione soprattutto: e cioè che l’Unione europea dice di voler costituire un esercito senza stabilire preliminarmente, però, chi avrà il potere di decidere come e dove impiegarlo e attraverso quale procedura. Una dimenticanza non da poco. D’ora in avanti, infatti, non si tratterà più, com’è sempre avvenuto finora per i vari eserciti europei, di aderire a decisioni d’intervento prese da organismi terzi, tipo la Nato o le Nazioni Unite. D’ora in avanti, viceversa, s’immagina che ci sia una qualche autorità specificatamente europea investita del potere di alzare il telefono e — con un’iniziativa del tutto autonoma, svincolata da qualsiasi altra — di ordinare al comandante dell’esercito dell’Unione di intervenire in questa o in quella parte del mondo.
Ma quale sarà mai l’autorità dotata di un simile potere? Un potere tanto più grande in quanto, tra l’altro, il previsto esercito europeo non è certo pensato soltanto come uno strumento difensivo, per rispondere a una (del tutto inimmaginabile) aggressione contro uno Stato dell’Unione (caso, eventualmente, di immediata pertinenza della Nato), bensì in tutt’altra ottica. Esso dovrebbe servire infatti come strumento operativamente offensivo, a tutela di interessi chiave della Ue da definire di volta in volta. Con una decisione intrinsecamente di politica estera, insomma, implicante una proiezione militare che in qualche modo potrebbe dar luogo anche ad un conflitto bellico sia pure di portata limitata.
Ma allo stato attuale quale istituzione europea potrebbe mai prendere una decisione così gravida di conseguenze? Evidentemente solo il Consiglio dei capi di Stato e di governo. Cioè un organismo di vertice composto di 27 persone, (forse) abilitate in questo caso a decidere — come suggerisce la prassi (perché una materia del genere non è prevista né regolata da alcun trattato) — all’unanimità. Il che solleva subito la domanda cruciale: è mai immaginabile che 27 capi politici — espressione di elettorati, tradizioni, interessi enormemente diversi tra di loro — decidano di imbarcarsi in un’azione militare che può divenire bellica e costare la vita a qualcuno dei propri connazionali oltre a creare complicazioni di una gravità imprevedibile? E che lo facciano, si ricordi, non già sotto la minaccia di un pericolo grave ed imminente, di un attacco da parte di un nemico, ma «solo» per un interesse politico-strategico sia pure importante quanto si vuole? Lascio ai lettori la risposta.
La storia insomma si vendica del peccato che è all’origine della costruzione europea. Il peccato commesso dai suoi padri fondatori quando s’illusero di esorcizzare il fallimento dell’iniziale progetto di unificazione — quello della Ced, della Comunità europea di difesa: progetto tutto politico, che non a caso aveva al suo centro la costituzione di un esercito comune — quando essi s’illusero, dicevo, di esorcizzare quel fallimento imboccando la strada dell’unificazione economica, nella speranza che prima o poi si potesse arrivare in questo modo anche all’unificazione politica. Tuttavia sono passati settant’anni (settant’anni!), è cambiato il mondo, ma dall’economia è nata solo l’economia: confermando che la politica — e la guerra che ne è un suo compendio supremo — sono tutt’altra cosa.
Oggi per la Ue il ritorno alla politica sembra quanto mai difficile. Tra l’altro anche perché nel frattempo sulla base di quella lontana scelta di settant’anni fa tutto il vasto establishment europeista ufficiale ha costruito una vera e propria «ideologia dell’Europa», un senso comune diffuso, che va in una direzione esattamente opposta. Ha messo radici infatti la formula — ripetuta a proposito e a sproposito da tutte le mezze calze progressiste in cerca di una bella formula demagogica — dell’Europa «potenza civile». È stata costruita l’immagine, cioè, di un’Europa «spazio di libertà e di giustizia» che intende riporre tutto il suo potere e il senso di se stessa unicamente nel diritto e nelle decisioni delle corti (quasi che poi da che mondo e mondo l’una e le altre, ahimè, non avessero bisogno, per contare qualcosa, anche di uno straccio di polizia e di qualche triste prigione). E insieme, naturalmente, l’immagine di un’Europa che proprio perché «civile» è sempre pronta a discutere, a promettere benefici, a trattare, a convincere, ma mai disposta a battere i pugni sul tavolo, a essere «potenza» militare in quanto portatrice di una propria determinata e forte identità politica.
All’Europa insomma la politica, una vera esistenza politica, continua drammaticamente a mancare, e sembra davvero difficile che da questo vuoto possa sorgere domani, quasi come una miracolosa araba fenice, un esercito degno del nome.