Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
Un Paese incapace di guardare al di là del proprio naso, periodicamente deve affidarsi a qualcuno che possa rimediare alla mancanza di lungimiranza
Prima di tutto bisogna ribadire l’ovvio: i governi tecnici non esistono, i governi sono tutti politici. L’alternativa «governo tecnico/governo politico» di cui si discute in questi giorni dovrebbe essere diversamente formulata: la scelta è fra governi con un orizzonte temporale relativamente ampio e governi con un orizzonte più ristretto. In una situazione come quella italiana il cosiddetto «governo dei tecnici» non è altro che un governo capace di agire in funzione di obiettivi di medio-lungo termine. Un governo che, come ha scritto Alberto Mingardi sul Corriere di ieri, sperabilmente, non si limiti a distribuire pesci (politica dei sussidi, assistenzialismo), qui e ora ma che si dia da fare perché ricominci nel Paese la costruzione di canne da pesca (capace cioè di rilanciare lo sviluppo economico, oltre che di fronteggiare la pandemia).
Il riferimento a persone e situazioni del nostro recente passato non è casuale.
Mario Draghi è l’uomo che rassicura l’Europa e il mondo su di noi. Come ha mostrato il favore che gli hanno riservato i mercati. Sappiamo che il governo Draghi, se si formerà, sarà in grado di elaborare un piano più che serio e convincente sull’uso che l’Italia intende fare dei fondi europei in arrivo, tale da rassicurare i nostri partner. Ma sarà anche in grado di dare vita a un esecutivo dotato della autonomia necessaria (dai partiti che lo sosterranno) per non farsi schiacciare, nel corso della sua navigazione, sul presente, per operare in funzione di obiettivi di medio termine?
È vero, come ha sostenuto Massimo Cacciari, che l’incarico a Draghi è il segno del fallimento di una classe politica. Si può discutere su quali ne siano le cause. Di sicuro ha pesato il drammatico impoverimento culturale — fatte, si capisce, le debite eccezioni — della nostra classe parlamentare (Ernesto Galli della Loggia, Corriere del 5 febbraio), la sua forte perdita di qualità nei corso dei decenni (Stefano Passigli, Corriere, 1 febbraio). Però è possibile che questo deterioramento si sia aggravato a causa dall’inesistenza di meccanismi correttivi. Questa potrebbe anche essere la ragione della periodica necessità che questo Paese ha, una volta esaurite le possibili combinazioni parlamentari, di rivolgersi a personalità estranee (Ciampi, Monti, Draghi) al gioco politico-partitico.
Proviamo a spiegarci. L’assenza dei meccanismi di cui parlo favorisce la tendenza della classe politica a gestire il consenso qui e ora senza nessun incentivo a preoccuparsi del domani. Naturalmente non bisogna fare del moralismo: la ricerca del consenso è, per chiunque faccia politica, una necessità. Ma il punto è se ci sia o no un qualche equilibrio fra tale ricerca e il perseguimento di vantaggi di medio termine per il Paese. Un tempo esistevano i partiti, forti e con forte radicamento sociale. Talvolta nel male ma spesso nel bene selezionavano la classe dirigente. Lo fecero molto meglio nei primi decenni della vita della Repubblica. Peggio in seguito, quando l’immobilismo fece degenerare la «repubblica dei partiti» trasformandola in partitocrazia. Ma anche allora la selezione, almeno in parte, continuò ad operare.
I partiti, nella prima fase, oltre a formare il personale parlamentare e di governo esprimevano continuità, di tradizioni e organizzative. Ed erano guidati dall’interesse a garantire la propria sopravvivenza. Pertanto funzionavano da meccanismi correttivi, contrastavano la naturale tendenza dei governi e dei Parlamenti ad amministrare solo il consenso immediato, a muoversi entro un orizzonte temporale ristretto. Da un certo momento in poi non riuscirono più a svolgere quella funzione, il meccanismo si inceppò. Il grande debito pubblico accumulato dall’Italia ne fu il principale risultato. Alla fine quel sistema dei partiti crollò e l’Italia si trovò nuda alla meta. Senza più forti partiti ma priva anche di un assetto istituzionale idoneo a compensarne la scomparsa.
Si può forse leggere così il lungo, faticoso, tentativo di trasformare l’Italia in una democrazia maggioritaria: non solo con una legge elettorale adeguata ma anche, come allora si ipotizzava e si sperava, con una riforma costituzionale in grado di dare stabilità e durata ai governi. Quel disegno, come sappiamo, fallì. Il risultato è che non disponiamo di alcun meccanismo che favorendo la durata e la stabilità dei governi spinga chi ne fa parte a porsi obiettivi di medio termine. A un ministro, per lo più, non conviene, dato che la sua aspettativa è di restare in carica solo per pochi mesi. Non è forse possibile che la mancanza di incentivi, politici e istituzionali, che obblighino i governanti a contemperare vantaggi di breve e di medio termine, abbia qualcosa a che fare anche con quell’impoverimento culturale di cui si è detto sopra? Bastano semplici mestieranti, non occorrono politici di qualità, se non è possibile dare all’azione di governo un respiro sufficientemente ampio.
Poiché però un Paese incapace di guardare al di là del proprio naso finisce prima o poi per sbattere contro ostacoli di ogni genere rischiando di rompersi le ossa, ecco che, periodicamente, occorre affidarsi a qualcuno che possa rimediare alla mancanza di lungimiranza, all’incapacità di agire in funzione del futuro, di chi ha governato solo fino a pochi giorni prima.
Torniamo alla finta alternativa fra governo tecnico e governo politico. La domanda è: Draghi riuscirà a dare vita a un esecutivo sufficientemente autonomo dai partiti che pure dovranno sostenerlo? Sarà una storia di successo solo se egli e i futuri ministri sapranno resistere alle pressioni dei tanti che agiscono come se il futuro non riguardasse nessuno. Nemmeno loro e i loro figli.