Fonte: Corriere della Sera
di Ernesto Galli della Loggia
I grillini mettono sotto accusa i privilegi dei parlamentari, ma il vero tema è la crisi dell’istituzione in Italia aggravata dal basso livello dei suoi rappresentanti
Quali sono esattamente i privilegi dei «politici», messi sotto accusa con furia incessante dal Movimento 5 stelle? Una domanda tanto più sensata in quanto non mi sembra proprio che i «grillini» siano contro i privilegi in generale. A quel che risulta, infatti, nulla di simile alla polemica contro i privilegi dei «politici» è stato mai dispiegato dai «grillini» contro quelli che sono gli indubbi privilegi di altre categorie. Per esempio contro gli emolumenti elevatissimi di alcuni alti dirigenti di pubbliche amministrazioni o contro una legislazione tributaria le cui maglie larghe favoriscono l’elusione fiscale e/o le grandi ricchezze. La polemica dei Cinque Stelle, insomma, non nasce in alcun modo da un’esigenza di «eguaglianza» o perlomeno di una «giusta misura». Il suo obiettivo non sono i privilegi, sono i privilegiati: e tra questi solo quelli di una particolare categoria, i «politici» per l’appunto. Ma circa i privilegi di cui godrebbero i «politici» i «grillini» non ci dicono mai quali sarebbero. In realtà, infatti, i privilegi che essi mettono sotto accusa, quelli la cui denuncia continua a decretare il loro successo, non sono quelli genericamente dei «politici» (che in quanto tali non risulta ne abbiano alcuno) bensì quasi sempre quelli dei parlamentari: le loro retribuzioni, i loro vitalizi, le loro prerogative, le varie facilitazioni di cui godono. Questa sostituzione di ruoli non è casuale.
Sorvolare sulla qualifica di parlamentare e parlare sempre invece soltanto di «politici» in generale, obbedisce, credo, a due ragioni. La prima e più banale è che mentre da noi il discredito e il vilipendio della politica possono contare in partenza sul vasto deposito del qualunquismo nazionale, sulla diffusa ignoranza di come funziona e non può non funzionare una società moderna (che ha un bisogno vitale della politica), viceversa la funzione parlamentare gode ancora di un qualche prestigio ed è percepita come costitutiva della democrazia, cioè di un regime che bene o male la maggioranza degli italiani ha imparato ad apprezzare. Agli occhi dei più, insomma, chi se la piglia con la politica ha sempre ragione da vendere «a prescindere». Chi invece lo facesse con il Parlamento dovrebbe se non altro precisare e spiegare meglio. Non solo, ma mentre scagliandosi contro i «politici» si può essere sommari e approssimativi quanto si vuole e si ha sempre ragione, invece mettere sotto accusa i parlamentari obbliga ad andare un po’ più in profondità. Per esempio a commisurare i loro «privilegi» con la loro funzione. E cioè con la funzione e il modo d’essere del Parlamento.
Questo è il punto decisivo a proposito dei «privilegi» della politica — ma in realtà dei parlamentari, come ho cercato di dire. Un punto che può essere espresso così: ciò che rende odiosi tali privilegi non è né la loro entità né la loro natura. È il fatto che essi non appaiono giustificati da nessuna funzione reale da parte di chi ne gode né da alcun suo merito. Il che accade perché oggi come oggi i «privilegiati» parlamentari, ridotti a pure comparse, non svolgono più alcun ruolo vero; perché istituzionalmente parlando essi sono divenuti delle figure del tutto parassitarie, le quali inoltre, tranne casi ormai rarissimi, siedono dove siedono senza il più piccolo merito proprio.
A veder bene, dunque, il tema dei privilegi dei «politici» nasconde il tema vero che è quello della crisi del Parlamento, e in genere di tutte le assemblee rappresentative (si pensi a quei veri e propri consessi di «anime morte» che sono gli attuali consigli comunali e regionali). Assemblee che ormai non decidono realmente più nulla, ma semplicemente ratificano ciò che è stato deciso in altra sede. Si tratta di una perdita di ruolo che ha colpito i Parlamenti di tutte le democrazie. Solo che in Italia essa si manifesta con maggiore evidenza e soprattutto con effetti di delegittimazione più pervasivi perché si intreccia con altri due fenomeni che altrove sono meno rilevanti o addirittura assenti.
Il primo è la crisi dei partiti, cioè degli organismi che di fatto gestiscono tutto il processo di selezione dei rappresentanti nelle istituzioni. Lo svuotamento ideale, la vacuità programmatica, il carattere rissoso e/o esasperatamente leaderistico-personale, che oggi li caratterizza più o meno indistintamente tutti fanno sì che i candidati che essi scelgono per le diverse occasioni elettorali siano perlopiù uomini e donne di nessun particolare prestigio e di nessuna apprezzabile riconoscibilità personale, designati unicamente in base alla loro «vicinanza», ovvero fedeltà, ai vertici incaricati di decidere. All’interno dei partiti è totalmente scomparsa, insomma, quella dura gavetta che preparava e poi, attraverso vari incarichi successivi, selezionava il personale politico destinato alle più alte rappresentanze istituzionali. Sicché oggi ogni «villan rifatto», purché sia nelle grazie di un «capo», può tranquillamente aspirare a divenire di primo acchito presidente di una Camera o di una Regione.
Il che avviene anche grazie al secondo elemento che in Italia ha ulteriormente accentuato la crisi dell’istituzione parlamentare. E cioè grazie alla legge elettorale in vigore dall’inizio di questo secolo e appena ora dichiarata incostituzionale. Quella legge che in pratica ha impedito che gli elettori scegliessero davvero i propri deputati e senatori dal momento che in virtù di essa la composizione delle liste elettorali da parte delle segreterie dei partiti ha comportato di fatto, in tutti questi anni, l’elezione preconfezionata di decine e decine di insignificanti Pinco Pallini.
È per questo che agli occhi dell’opinione pubblica la crisi dell’istituzione parlamentare ha preso la forma soprattutto del discredito irrimediabile dei suoi membri, del loro precipitare nella disistima generale, quando non addirittura (come si è visto in certi programmi televisivi) nel dileggio per la loro impreparazione e la loro crassa ignoranza. C’è da meravigliarsi, allora, se qualunque somma o beneficio erogati a simili persone vengano percepiti come un privilegio inammissibile? Se la loro sola esistenza autorizzi ogni discredito verso «la politica»?
Eppure, chissà perché di questa crisi qualitativa del personale politico e della rappresentanza parlamentare, così come della crisi della funzione delle Camere, dalle schiere grilline non si sente mai dire una parola. Lo spazio è solo per la conseguenza ultima, per i maledetti «privilegi» dei maledetti «politici». Forse perché le suddette schiere sanno bene che nella crisi di cui sopra pure loro sono immerse fino al collo?