Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
Se stiamo ai fatti anziché alle supposizioni, dobbiamo constatare che al momento il del cambiamento è bilanciato soprattutto da una figura istituzionale: il presidente della Repubblica
Anche se è un evento raro, accade, di tanto in tanto , che in una democrazia , in virtù di regolari elezioni, il governo cada in mano a forze rivoluzionarie, propense a cambiare radicalmente i «fondamentali»: dalla collocazione internazionale del Paese ai rapporti fra politica ed economia, alle stesse regole del gioco (costituzionali) su cui si regge la democrazia rappresentativa. Il «governo del cambiamento» insediatosi dopo le elezioni del 4 marzo 2018 ha questa natura. Ma esso incontra , nella sua azione , la resistenza di figure istituzionali il cui compito consiste nel difendere quei fondamentali. Coloro che le incarnano sono stati scelti , nella stagione politica precedente, per quello scopo , non per assecondare il desiderio dei «rivoluzionari di governo» di mandare a gambe all’aria il tavolo. Per inciso, non è sicuro che le attuali, quotidiane baruffe fra Lega e 5 Stelle preannuncino una imminente crisi di governo . Il potere esercitato qui e ora ha un odore e un sapore inebrianti e una crisi di governo si sa come comincia e non si sa come finisca. In ogni caso, anche se il governo cadesse, nulla capiremmo del nostro futuro prima di conoscere i risultati delle prossime elezioni politiche. Se stiamo ai fatti anziché alle supposizioni, dobbiamo constatare che al momento il governo del cambiamento è bilanciato soprattutto da una figura istituzionale: il presidente della Repubblica.
Non c’è ambito nel quale le forzature tentate dal governo giallo-verde non abbiano incontrato la resistenza del presidente. Chiariamo: ciò avviene nel rispetto dei poteri che la Costituzione assegna alla presidenza. Chi, ad esempio, pretende che Mattarella non firmi questa o quella legge regolarmente approvata da una maggioranza parlamentare, gli sta chiedendo di arrogarsi poteri che non ha. Ma, nel rispetto dei limiti che la Costituzione pone alla sua azione, il presidente opera in difesa dei fondamentali. Si pensi alla collocazione internazionale del Paese e a quanto salato in termini di spread — come Francesco Giavazzi ha chiarito sul Corriere di ieri — sia il conto che paghiamo a causa delle posizioni del governo. L’antieuropeismo e l’antiatlantismo ampiamente presenti, se non dominanti, nella maggioranza di governo, vengono oggi tenuti a bada, per quel che gli compete, solo dal presidente Mattarella. Lo testimoniano, ad esempio, la sua azione di ricucitura al momento della improvvida crisi diplomatica fra Italia e Francia e i paletti che ha cercato di mettere, a nostra futura garanzia, in occasione dell’accordo Italia- Cina.
Oppure si pensi all’opera di difesa della indipendenza di Bankitalia contro la volontà della maggioranza, o di settori di essa, di riportarla, dopo decenni, sotto il controllo della politica. Un’opera che ha una doppia valenza: sovranazionale e interna. Sovranazionale perché su quella indipendenza si fonda la nostra appartenenza all’Europa monetaria. E interna perché svolta in difesa di una continuità e una stabilità istituzionale necessarie per garantire che la ricchezza nazionale, e i risparmi degli italiani, non vengano dilapidati da un «panpoliticismo» che tutto vuole divorare. Un panpoliticismo, aggiungo, proprio di forze che devono il loro successo all’aver cavalcato la cosiddetta antipolitica. Il panpoliticismo, checché se ne dica, non è «in contraddizione» con l’antipolitica: ne conferma piuttosto l’ inconsistenza, teorica e pratica.
Si consideri anche quanto sta accadendo in questi giorni. Il presidente ha dovuto firmare la legge istitutiva di una Commissione di inchiesta sulle banche. Ma ha anche chiarito, con la sua lettera, che la Commissione non potrà travalicare i suoi poteri, non potrà mettere le mani della politica nei più delicati ingranaggi del sistema del credito, non potrà essere il cavallo di Troia delle suddette pulsioni panpoliticiste. Chi pensa che il governo sia agli sgoccioli spera che fra non molto l’opera di difesa dei fondamentali in cui è impegnato il presidente non sia più necessaria. C’è chi immagina che presto si tornerà a una «normale» dialettica fra centrodestra e centrosinistra e che, anche nel caso che un centrodestra a trazione leghista vinca, il governo non avrà più comunque la carica rivoluzionaria che oggi possiede. C’è da dubitare che quella «normale dialettica» fra destra e sinistra si ricostituisca. Essa appartiene a un’epoca finita: l’epoca del maggioritario. Siamo tornati alla proporzionale e in regime di proporzionale la cosiddetta normale dialettica è di altro tipo. È vero che il centrodestra e il centrosinistra esistono ancora sul piano locale e regionale. Ma ciò accade perché localmente e regionalmente perdurano meccanismi maggioritari. Se così è, non dobbiamo chiederci se alle prossime elezioni vincerà il centrosinistra o il centrodestra. Dobbiamo chiederci se ci sarà ancora in Parlamento, quale che sia la futura distribuzione delle forze, una maggioranza nazional-populista (detta «sovranista»), una maggioranza che di nuovo punterebbe a rimettere in discussione le antiche collocazioni e le antiche regole. Magari, tale maggioranza potrebbe avere le sembianze di un leghismo più forte di oggi (anche se forse non tanto quanto dicono i sondaggi) e un movimento 5 Stelle ridimensionato ma non del tutto. C’è una circostanza che potrebbe giocare a favore della ricostituzione — magari dopo una confusa fase intermedia — di una maggioranza nazional-populista in Italia (e del successo di gruppi simili in altre parti d’Europa): è possibile che Donald Trump ottenga un secondo mandato. Ciò favorirebbe i suddetti gruppi.
Nel 2022 scadrà il settennato di Mattarella. In politica tre anni sembrano un’eternità ma non lo sono. Se in quel momento ci sarà in Parlamento una maggioranza non troppo dissimile dall’attuale, quali che ne siano gli equilibri interni, allora quella maggioranza «si prenderà» la presidenza e non ci sarà più nessuna forza di bilanciamento. Ciò dovrebbe chiarire quale sia la vera futura posta in gioco. Le prossime elezioni politiche non serviranno solo a decidere come sarà composto il nuovo governo. Decideranno anche le sorti della democrazia italiana.