Il rapporto di Fondazione Cariplo sulle disparità sociali: decisivi i primi anni di vita, il recupero è costosissimo (spesso impossibile)
La povertà come destino. Non nel «terzo mondo», come lo abbiamo a lungo chiamato forse per suggellare una distanza di sicurezza e sentirci così protetti, noi «primi», grazie al cuscinetto del «secondo mondo». Non nei Paesi «in via di sviluppo» come abbiamo poi cominciato a dire per esprimere fiducia in quella «via», con i lavori perennemente in corso, che prometteva destinazioni migliori. No, non altrove, non lontano. Qui. La povertà — economica, educativa — come prospettiva per milioni di persone che nascono/crescono nel nostro Paese. Come è possibile che la diseguaglianza diventi sempre più – e non sempre meno – una ferita per i singoli e la collettività?
Come possiamo rassegnarci davanti alle prove statistiche che dimostrano quanto il solco tra i ragazzi, cittadini e lavoratori di domani, si stia approfondendo invece di colmarsi e permettere a ciascuno una corsa senza dislivelli o steccati? È l’interrogativo che ci pone il primo Rapporto Disuguaglianze (voluto da Fondazione Cariplo e curato da Federico Fubini con un team di otto autori) alla vigilia di questa Pasqua che porta sempre con sé una speranza di ripartenza, per credenti e non credenti. I dati sono moltissimi, e coerenti. Rivelano un aumento della frammentazione sociale. Persone che vivono vicine e tuttavia sono lontane, già dai primi anni di vita, a causa di un’asimmetria nelle opportunità. Che presto si tramuta in un’asimmetria delle capacità.
Il divario nelle condizioni di partenza genera, di fatto, disparità di futuri possibili. Dei tanti riscontri che il Rapporto propone, proviamo a metterne a fuoco due. Il primo. Guardando ad altri Paesi, l’Italia ha rappresentato a lungo un’eccezione se consideriamo «la dinamica del rapporto tra il valore del patrimonio e il reddito». Vuol dire che la ricchezza dei privati, finanziaria e immobiliare, ha tenuto. Ma ora la bassa crescita sta intaccando questa sponda. E nell’affanno prolungato della «permacrisi», lo Stato, con i suoi interventi di politica redistributiva, fatica a compensare l’allargamento della forbice sociale. Anzi, ci riesce meno rispetto ai decenni che hanno chiuso il secolo scorso. L’incidenza della «povertà assoluta» è di conseguenza «decisamente aumentata» dal 2005.
Il secondo punto di osservazione è strategico. Se questa è la situazione, accelerata ma non generata dalla pandemia, che cosa sta facendo la scuola — la leva più potente verso l’uguaglianza — per contrastare gli squilibri? In un mondo precario, al di là di carriera o non carriera, chi raggiunge “competenze elevate” ha più chance di svolgere un ruolo attivo nella società. Ma se le origini familiari, le differenze di genere e la provenienza geografica non vengono appianate durante il percorso educativo, chi potrà mai garantire che il merito dei singoli potrà attraversare un sistema bloccato e uscirne vincente? Un potenziale umano sempre più vasto rischia di disperdersi. E recuperarlo dopo sarà costosissimo, se non impossibile. Non è andata sempre così, in Italia. Lo raccontano i nostri genitori o nonni.
C’è stata una stagione felice, o almeno promettente felicità, durante la quale i giovani italiani non avevano paura di muoversi e scommettere. La scuola, per quelle generazioni di padri e madri, rappresentava una garanzia: i figli e le figlie, se accolti e motivati, avrebbero potuto raggiungere almeno un piano superiore e da lì costruire ancora. Se questo meccanismo è inceppato, se non saliamo insieme, stiamo perdendo tutti. Non solo i poveri, non solo i “meno fortunati” delle periferie. Le diseguaglianze non riguardano esclusivamente chi ne subisce le conseguenze più gravi e immediate: il confine tra equità ed efficacia non è tracciabile. È un inganno. Più equità tra gli individui genera un sistema più efficace. Che è giusto e conviene allo stesse tempo, che farà bene a tutti. Perché la povertà non può essere il nostro destino.