22 Novembre 2024
bandiera israele

bandiera israele

Alla testa del movimento si sono portati i riservisti delle forze speciali e dell’aviazione, minacciando di non rispondere più alla chiamata in servizio

Una marea biancoazzurra, ondeggiante, impressionante. È la visione delle piazze — a Tel Aviv, Gerusalemme e in decine di altre città israeliane — che l’occhio dei droni ha riverberato in tutto il mondo. E consegnato, esaltante o lacerante, nelle case e sugli schermi dello Stato ebraico. Quasi quattro mesi di manifestazioni, ogni volta centinaia di migliaia di persone, famiglie apolitiche fino al giorno prima accanto agli attivisti, ai rappresentanti delle opposizioni, ai più moderati tra gli stessi conservatori. Sempre di più. Gli organizzatori della protesta, espressione di un centro-sinistra da anni sospettato di non capire il patriottismo, ammettono di aver così ritrovato e riabbracciato i colori della bandiera nazionale. Ed è questo richiamarsi alla stessa stoffa identitaria — prima reclamata in esclusiva dalle forze che fanno capo alle destre — a rendere la straordinarietà e la drammaticità di quanto sta avvenendo in un Paese che non ha mai affrontato una contrapposizione interna così radicale. All’origine dello scontro c’è quella che il premier Netanyahu definisce «una riforma necessaria» per ristabilire gli equilibri nel sistema democratico e chi lo contesta chiama invece «un’incursione golpista» su cui si innesta la deriva autocratica. In gioco ci sono soprattutto i poteri della Corte suprema, alla quale (in uno Stato senza Costituzione) spetta il ruolo di bloccare e respingere al mittente norme approvate dal Parlamento o decisioni amministrative.
Norme o decisioni se ritenute, le prime, non in linea con le «leggi di base» che interpretano lo spirito della Dichiarazione d’Indipendenza e, le seconde, avverse a «una clausola di ragionevolezza» ascritta in ultima analisi agli alti giudici. L’esecutivo guidato da Bibi, come viene soprannominato, punta a introdurre la possibilità di «sovrascrivere» le decisioni della Corte (override clause) con un voto parlamentare a maggioranza semplice. Bastano 61 sì su 120 deputati della Knesset. Ogni coalizione che esca vincente dalle urne, anche se con margini minimi e spesso incerti, potrà calamitare nel suo campo l’ago della bussola dei poteri.
Sullo sfondo, o in primo piano a seconda dei punti di osservazione, ci sono il processo per corruzione allo stesso primo ministro (per Netanyahu è un blitz senza fondamento con il proposito di rimuoverlo) e l’avversione verso la Corte Suprema da parte dei leader dei coloni (che vorrebbero avviare un’annessione spiccia della Cisgiordania, base di un eventuale Stato palestinese) come dei partiti ultraortodossi (che temono per l’esenzione dal servizio militare obbligatorio sinora concessa agli studenti delle scuole rabbiniche).
Contro questo incrocio di obiettivi ravvicinati, e in nome dell’autonomia della magistratura e della tutela dei diritti civili, si è generato il movimento dei movimenti che ha riempito le strade fino alle ultime notti. Un movimento alla cui testa si sono portati i riservisti delle forze speciali e dell’aviazione, quelle élite militari rispettate e resilienti in ogni passaggio critico di un passato nazionale sempre prossimo, che hanno minacciato di non rispondere più alla chiamata in servizio. L’altro fianco esposto è l’economia. Non a caso i capi del sindacato più potente avevano lanciato lo sciopero generale a fianco di amministratori delegati e manager delle aziende principali: la paura condivisa è che l’immagine della start up nation — capace di attrarre investimenti internazionali attorno alle tecnologie, di stupire e convincere grazie a un’esercitata attitudine all’innovazione — finisca per essere segnata in modo permanente dalle crepe nello Stato di diritto. Con fuga di cervelli, capitali e reputazione.
La memoria familiare di Benjamin Netanyahu è radicata nell’orgoglio militare (ad Entebbe morì il fratello e lui divenne poi team leader della stessa unità), quella personale nelle intuizioni finanziarie di un ex allievo dell’Mit di Boston: per lui mantenere l’impegno di «un consenso più ampio», promesso ieri sera all’annuncio del rinvio della riforma, è l’ultima chiamata a non estinguere un lascito al Paese che anche i critici in parte gli riconoscono. Dalla risoluzione di questa crisi, che ha toccato ogni fibra democratica dello Stato, partiti e cittadini assieme, passa invece l’identità futura di Israele.

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