22 Novembre 2024

La premier Meloni e le scelte da fare dopo la vittoria in Abruzzo. A iniziare dall’economia

Parliamoci chiaro: la vittoria in Abruzzo è una clamorosa prova di forza della destra italiana, in particolare di Giorgia Meloni. Cinque anni fa la leader di Fratelli d’Italia paracadutò tra L’Aquila e Pescara un suo antico compagno di militanza, romano di origini abruzzesi — come quasi metà dei romani —, che ancora da governatore faticava a rinvenire la «sua» regione sulla cartina geografica (se avessimo detto a scuola che l’Abruzzo affaccia su tre mari, la maestra ci avrebbe mandato dietro la lavagna in ginocchio sui ceci). Dall’altra parte non c’era un bolscevico assetato di sangue borghese, ma il mite ex rettore dell’università di Teramo, che si presume padroneggi i confini dell’Abruzzo e sappia pure gli affluenti del Sangro; il che non l’ha salvato da una cocente sconfitta. Più prova di forza di così.
Oltretutto, la Meloni si è spesa — da premier — in prima persona, prendendosi un bel rischio dopo il flop in Sardegna. E stavolta aveva contro tutti, non solo Pd e 5 Stelle ma Azione, Abruzzo vivo, Sinistra, Verdi, insomma l’opposizione al completo, la quale si è illusa di intercettare un cambio di vento che all’evidenza non c’è. Se si votasse domani in una qualsiasi delle grandi Regioni del Nord, la sinistra non avrebbe chances: non in Piemonte, non in Lombardia, non in Veneto; e probabilmente neppure nel Lazio, in Sicilia, financo in Campania, senza il grande nemico della Schlein, De Luca. Certo, alle Europee l’opposizione potrà dire che la somma dei suoi voti è più o meno pari a quella della maggioranza; ma la maggioranza per quanto rissosa sta insieme al governo, mentre dall’altra parte una coalizione non c’è e difficilmente potrà esserci.
Si spera che la presidente del Consiglio tragga da questa prova di forza una conclusione utile non solo a lei, ma pure al Paese. Non ci sono complotti. Non ci sono — per il momento — smottamenti nel consenso suo personale e del suo partito. Nello stesso tempo, non ci sono scuse. È il momento di governare. Non di polemizzare con Mattarella sui manganelli, o di girare di comizio in comizio; e neanche di rottamare le cartelle inevase, alla faccia degli italiani che le hanno regolarmente pagate e di un deficit al 7,3% del Pil, due punti sopra le previsioni. Governare significa innanzitutto affrontare la questione più complessa, su cui si è eroso il consenso dei governi precedenti: l’economia. L’Italia oggi è un Paese che non ha fiducia nel futuro, infatti fa pochi figli e investe poco nell’economia produttiva; mentre scuola e sanità continuano a perdere posizioni, a dispetto dell’abnegazione di molti insegnanti, medici, infermieri. Rovesciare la tendenza non è facile; ma è l’unico, vero modo per consolidare il governo.
Se la Meloni non dovesse farcela, l’impressione è che dopo di lei non arriveranno la Schlein e Conte. I 5 Stelle funzionano se sono trasversali, se possono prendere voti anti-sistema di qua e di là; soffrono in un’alleanza organica con il partito-sistema per eccellenza, il partito contro cui il movimento grillino è nato, il Pd. Essersi alleati nel 2019, per impedire a Salvini di stravincere le elezioni e assumere così i «pieni poteri», fu forse opportuno; ma è un po’ poco per costruire oggi un’alternativa credibile all’attuale maggioranza. Quanto a Salvini, appare ormai un prestigiatore in confusione, al quale non riesce più il vecchio numero con cui incantava il pubblico. Questo coniglio nel cilindro, che era qui sino a un attimo fa, proprio non si trova; e fare opposizione da destra alla Meloni proprio non paga. Dopo la Lega di Bossi, sindacalista del Nord, e la Lega di Salvini, neonazionalista, verrà forse la Lega di Zaia, che guarderà al Nord nella logica del «primum vivere», ma alla lunga punterà a conquistare il centro dello schieramento politico; dove Forza Italia, sopravvissuta a Berlusconi, regge meglio del previsto. Per evitare di farsi sorprendere ferma sulle gambe, Giorgia Meloni dovrà muoversi nella direzione giusta: incentivare il lavoro, gli investimenti produttivi, la crescita economica e demografica. E anche aprire la propria classe dirigente a una schiera più ampia dell’antica militanza; perché, con la squadra modesta che si ritrova oggi, non può andar bene tutte le volte. È questo, in politica, il vero elisir di lunga vita.

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