Fonte: Corriere della Sera
di Franco Venturini
I sorrisi che accoglieranno oggi al vertice di Bruxelles il presidente del Consiglio non basteranno a fare dimenticare quanto delicate siano le questioni tuttora aperte della nostra politica nell’Ue. Gentiloni dovrà affrontare da subito, tra l’altro, il tema della revisione degli accordi di Dublino
Al vertice europeo che si tiene da oggi a Bruxelles il debuttante Paolo Gentiloni sarà accolto con calore e sollievo. Calore perché l’ex ministro degli esteri è da tempo apprezzato per il suo garbo e la sua naturale propensione a evitare gli scontri frontali. Sollievo perché dopo il nettissimo verdetto del referendum i nostri principali partner europei temevano che in Italia ogni istanza riformatrice venisse archiviata, magari a beneficio di quanti caldeggiano una chiamata alle urne sull’appartenenza all’eurozona. Invece nella nascita del governo Gentiloni è prevalsa una esigenza di operatività fino alle elezioni politiche, e tanto basta per garantire ai nostri soci che non è imminente una destabilizzazione italiana capace di diventare destabilizzazione europea. E poi c’è un altro tipo di sollievo, palpabile anche se nessuno lo evoca apertamente: tra gli errori di Matteo Renzi in campagna elettorale c’è stato quello di mettere ruvidamente sotto accusa l’Europa, e i modi scelti, più delle argomentazioni spesso fondate, hanno lasciato a Bruxelles come a Berlino qualche traccia che ora il savoir faire di Gentiloni non faticherà a cancellare.
Meglio così. E tuttavia gli ampi sorrisi che accoglieranno al vertice il presidente del Consiglio non basteranno a far dimenticare quanto delicate siano le questioni tuttora aperte della nostra politica europea. Non è accettabile che l’Europa si volti dall’altra parte mentre l’Italia batte ogni suo primato nell’arrivo di migranti (175.295 dall’inizio dell’anno). Non corrisponde inoltre allo spirito e alla lettera di valori che dovrebbero essere comuni il fallimento clamoroso dei piani di redistribuzione dei rifugiati, mentre gli accordi con la Turchia e il blocco della «rotta dei Balcani» mettono relativamente al riparo molti Stati prima investiti ancor più di noi dall’onda anomala dei migranti. Da subito Gentiloni sarà chiamato ad affrontare il tema della revisione degli accordi di Dublino (ogni Paese si tiene i migranti che entrano nel suo territorio), e sarà questa una ottima occasione per mostrare ai partner, soprattutto a quelli del gruppo di Visegrad, che garbo e arrendevolezza sono cose diverse. Salvo a confermare, in caso di esiti insoddisfacenti, l’avvertimento già formulato da Renzi sulla possibilità di un veto italiano al bilancio comunitario.
Bisognerà poi vedere quanto severa sarà Bruxelles nel reclamare «misure aggiuntive» sui conti italiani: forse meno dei cinque miliardi inizialmente previsti, per non turbare la transizione politica? Gentiloni peraltro continuerà a suggerire un rigore finanziario più ragionevole, orientato alla crescita e all’occupazione. E saranno del resto queste le istanze che l’Italia porterà alle celebrazioni di marzo a Roma per il sessantesimo dei Trattati, nella speranza che non siano soltanto celebrazioni. Parallelamente l’Italia del post-referendum siederà nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, presiederà il G-7, ne organizzerà il vertice annuale in maggio a Taormina. Occasioni di prestigio da non sprecare, soprattutto se si pensa che quello di Taormina potrebbe essere, per noi e per altri europei, uno dei primi incontri operativi con il nuovo Presidente degli Stati Uniti.
Le prove che ci attendono sulla scena internazionale non sono certo di ordinaria amministrazione, e Donald Trump avrà una influenza decisiva su molte di esse. Quale sarà nei prossimi mesi e nei prossimi anni l’impatto reale del capo della Casa Bianca sul ruolo della Nato, sui rapporti con la Russia, su quelli con l’Europa? L’Italia rischia di essere assorbita dall’attraversamento di un suo Rubicone interno proprio mentre si modificano gli equilibri del dopoguerra e ancor più quelli del dopo-Muro, mentre cambia volto la geopolitica delle crisi, mentre non è più inconcepibile che si vada verso un G-3 di potenze (Usa, Russia, Cina) che lascerebbe fuori l’Europa a sua volta immersa nelle elezioni del 2017 e insidiata da pericoli di disgregazione. In previsione delle tante verifiche che ci aspettano conterà avere una maggiore capacità di iniziativa anche fuori dagli schemi tradizionali, e restare fedeli alla fondamentale alleanza con l’America ma anche contribuire a prese di posizione (europee?) che potrebbero essere diverse da quelle dell’America di Trump, sul commercio internazionale, sull’ambiente, forse sul Medio Oriente e sul Mediterraneo.
Nell’attesa, proprio dal Mediterraneo viene una sfida che ci mette subito alla prova: la Libia. La liberazione di Sirte ha paradossalmente moltiplicato i pericoli di ulteriore destabilizzazione interna, perché diventa possibile, più che mai ora che il prezzo del greggio aumenta, una «guerra per il petrolio» tra le milizie che appoggiano il governo Serraj e le forze guidate dal generale Khalifa Haftar. Non basta. A Tripoli Fayez al-Serraj vive assediato e soltanto i contributi occidentali riescono a garantire parziali forniture di elettricità e scarsi servizi essenziali. Haftar a Bengasi non sta molto meglio, ma a sostenerlo ci sono l’Egitto, gli Emirati e ora anche la Russia (fa gola a Putin un nuovo porto sul Mediterraneo?). Tutto indica che insistere sugli accordi di Skhirat sia ormai inutile. Serve un approccio nuovo, che coinvolga direttamente Serraj e Haftar ma anche tutti gli attori esterni, serve chiarezza tra gli alleati (per esempio tra l’Italia e la Francia), serve una ripresa di contatti con l’Egitto senza per questo arrenderci sulla vicenda Regeni, serviranno un coinvolgimento di Trump e una verifica delle intenzioni russe. Non possiamo più permetterci il vicolo cieco, e far finta di non sapere che dalle coste libiche vengono quei flussi migratori che molto contribuiscono a modificare in senso populista gli equilibri interni dell’Italia.