22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Danilo Taino

Mentre Francia e Germania sono bloccate e faticano a tenere unita la Ue, cade sul presidente del Consiglio l’onere di fare sapere al mondo che l’Europa c’è


Mario Draghi è un maestro di Realpolitik. Si spiegano così alcune sue recenti iniziative inattese, addirittura sorprendenti. E, in fondo, la guida stessa della Banca centrale europea, tra il 2011 e il 2019, è un caso di costruzione di un nuovo equilibrio tra poteri, finalizzato a un risultato. Obiettivi più che idealismo.
Il presidente del Consiglio non è un politico improvvisato, sa bene che Recep Tayyip Erdogan non è formalmente un dittatore: il leader turco è un«uomo forte», illiberale, autoritario e mette in pericolo la democrazia; ma è stato eletto in elezioni, certo condotte soffocando le opposizioni, e nonostante la repressione la Turchia non è una classica dittatura. Eppure, Draghi ha consapevolmente strappato i veli della diplomazia e lo ha definito «un dittatore»: un calcio negli stinchi a nome di molti governi dell’Unione europea. Allo stesso modo, anche l’impegno a portare da Londra a Roma la finale degli Europei, annunciato lunedì scorso, è un calcio agli stinchi di Boris Johnson: pure questo inaspettato e poco ortodosso e portato a un leader vissuto come avversario (ben diverso da Erdogan) della Ue.
Cos’ha in mente Mario Draghi? Probabilmente, qualcosa maturato in anni al cuore della costruzione europea ma vissuto fuori dalla politica, qualcosa che gli ha consentito di osservare da vicino i limiti che spesso mostrano i governi della Ue. Cioè la timidezza della loro leadership, diventata evidente durante la pandemia, con errori di quasi tutte le cancellerie, e palese oggi che Angela Merkel si appresta a lasciare la scena, in autunno, ed Emmanuel Macron è alle prese con una difficile riconferma elettorale, la primavera dell’anno prossimo. In questo passaggio, l’Italia, terza economia della Ue, ha la possibilità e il dovere di dare il massimo contributo di guida: lo può fare perché il suo quadro di governo per ora non ha scadenze elettorali, perché i partiti sono in stato di semi-sospensione e soprattutto perché ha un premier in grado di sviluppare iniziative ed essere preso sul serio a livello internazionale. Draghi sa di poter contare su questi punti di forza.
Si può discutere nel merito il suo approccio a Erdogan e a Johnson. Ma non è questo il problema nella logica della Realpolitik. Dopo le elezioni amministrative francesi di domenica e la disaffezione mostrata dagli elettori, è difficile attendersi iniziative di respiro europeista che nascano a Parigi. L’intervista data al Financial Times lunedì dal probabile successore di Merkel, Armin Laschet, fa sospettare che, anche dopo l’uscita di scena della cancelliera, Berlino continuerà a sostenere una posizione ambigua nei confronti di Cina e Russia, come se l’Europa fosse ferma a dieci anni fa e non coinvolta in una competizione tra grandi potenze, illusa dalla Fine della Storia che invece è tornata prepotente. Detto in modo brusco ma, appunto, realista: Francia e Germania sono bloccate, faticano a tenere unita la Ue e cade su Draghi l’onere di fare sapere al mondo che l’Europa c’è, in una fase internazionale confusa tra le più delicate. Non scontato per un Paese che negli ultimi decenni ha mostrato poca capacità di politica estera e scarso impegno serio in Europa. Non scontato ma in una certa misura possibile: anche Merkel segue Draghi nei dubbi sulla finale a Wembley.
Da presidente della Bce, Draghi non si è limitato a guidare un’istituzione che fa analisi e sulla base di queste prende decisioni di politica monetaria. Ha tessuto con successo una serie di rapporti — tra i governatori nazionali ma anche con primi ministri a cominciare da Merkel — che gli hanno consentito di fare passare le sue scelte, in alcuni casi anzi di imporle, ad esempio alla Bundesbank. Su un diverso livello, dare oggi del dittatore a Erdogan e cercare di portare via la finale dell’Europeo a Johnson è un po’ come il Whatever it takes che nel 2012 chiarì ai mercati che la Bce c’era e l’euro non sarebbe fallito: un’affermazione che mostrava i muscoli. Oggi qualche muscolo lo deve mostrare la Ue, almeno fare sapere di esserci. Forse il merito è discutibile, ma in un mondo in cui è tornata la Realpolitik, è Draghi il realista del momento.

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