Fonte: Corriere della Sera
di Bruno Forte
L’«Appello ai liberi e forti» fu rivolto cento anni fa da Don Sturzo ad un Paese che non seppe ascoltarlo e scivolò verso la deriva totalitaria
Uno sguardo anche rapido alla situazione dell’Italia d’oggi mostra l’immagine di un Paese in larga parte sfiduciato e diviso, con tratti per alcuni aspetti non dissimili da quelli dell’Italia cui si rivolgeva l’Appello ai liberi e forti firmato da don Luigi Sturzo e dalla Commissione Provvisoria del Partito Popolare il 18 Gennaio 1919, esattamente un secolo fa. La stanchezza si profilava allora e si profila oggi soprattutto nella perdita di carica utopica, riscontrabile specialmente fra i giovani, e in quella diffusa disaffezione nei confronti dell’impegno politico, che sembra sempre più ricompensare chi promette quanto maggiormente rassicura o piace. Contribuisce a questa stanchezza l’alto tasso di litigiosità della politica tradizionale, espressione di divisioni profonde, radicate in logiche prigioniere di particolarismi e incapaci di alzare lo sguardo all’orizzonte più ampio ed esigente del bene comune, così com’è descritto nell’esordio dell’appello di Sturzo: «A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà».
Viene da chiedersi come sia ancora possibile riconoscere nel «bene comune» il principio di orientamento fondamentale dell’agire politico. C’è chi per sostenere l’inattualità della tensione al «bene comune» invoca la «società liquida», in cui tutti hanno il proprio modo di comprendere il bene, spesso in antitesi ad altre visioni: questo renderebbe impossibile individuare mete condivise, per cui ci si dovrebbe accontentare di regole minime per garantire la reciproca tolleranza, rinunciando a ogni interesse per il bene di tutti. Altri riducono il «bene comune» a merce di scambio, all’insegna di ciò che più alletta: ne deriva in molti una sensazione di disgusto verso gli scenari della politica, che diventa tentazione di disimpegno e di qualunquismo, di protesta o di cedimento a seduzioni facili. Ritornano perciò più che mai rilevanti le qualità invocate dall’Appello ai liberi e forti per impegnarsi al servizio di tutti: la libertà della coscienza, necessaria a mettesi in gioco per ciò che trascende il mero calcolo individuale; e l’essere «forti», capaci di restare fedeli alle scelte fatte di fronte a qualsivoglia ostacolo o prova. Solo a queste condizioni possono vincersi la paura, il qualunquismo e l’abdicazione.
Il messaggio che viene a noi dall’appello di Sturzo sta allora soprattutto nella convinzione che alla vita politica occorrono donne e uomini capaci di pensare in grande, di osare per uno scopo giusto, di pagare il prezzo anche a livello personale per il conseguimento di un fine che valga la pena per il bene comune. C’è bisogno di protagonisti capaci di misurarsi costantemente con l’esigenza dei giudizi etici, promuovendo con il massimo impegno la dignità della vita di tutti, unendo al soddisfacimento dei bisogni materiali la cura delle esigenze spirituali. È quanto affermava in tempi non molto lontani da quelli di Sturzo il gesuita tedesco Alfred Delp, morto in campo di concentramento, martire della barbarie nazista: «Il pane è importante, la libertà è più importante, ma la cosa più importante di tutte è la fedeltà mai tradita e l’adorazione vera». Abbiamo bisogno di uomini e donne disposti a soffrire per la verità, pronti a non cedere al compromesso, decisi nel rifiutare la menzogna e il vantaggio egoistico: in una parola, disposti a misurarsi costantemente col giudizio morale sulla storia e sulle singole vicende umane. Condizione indispensabile di un autentico impegno al servizio del bene comune sarà, allora, l’essere disinteressati, non attaccati al denaro e al potere: «Chi è troppo attaccato al denaro – scriveva ancora don Sturzo – non faccia l’uomo politico né aspiri a posti di governo. L’amore del denaro lo condurrà a mancare gravemente ai propri doveri» (Il manuale del buon politico, Edizioni San Paolo 1996, 132). E un tale distacco nasce da una continua tensione, ispirata dallo sguardo rivolto all’orizzonte ultimo.
Nell’idea di don Sturzo, infine, il servizio al bene comune non può realizzarsi come avventura solitaria, ma ha bisogno della comunità da cui attingere ispirazione e forza e con cui verificare l’onestà e l’efficacia dell’impegno. Due atteggiamenti opposti hanno danneggiato questo rapporto nella storia del nostro Paese: da una parte, il collateralismo, che ha spinto talvolta i cattolici a ritenere un unico partito politico braccio secolare dei propri interessi e i politici che si fregiavano del nome cristiano a considerare la comunità come fonte di facili consensi e di sostegno sicuro. Dall’altra, il disimpegno verso l’azione politica, che ha portato al disinteresse e all’abbandono dell’attenzione ai più deboli, che dovrebbe essere sempre viva nel cuore dei credenti. Entrambi questi atteggiamenti sono sbagliati: occorre costruire un rapporto di fiducia e di stimolo critico fra coloro che si riconoscono nella vocazione al servizio politico e la comunità nel suo insieme. È quanto affermano le parole finali dell’Appello ai liberi e forti: «A tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti, a quanti nell’amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degli interessi nazionali con un sano internazionalismo, a quanti apprezzano e rispettano le virtù morali del nostro popolo, facciamo appello e domandiamo l’adesione al nostro programma». Un invito attuale oggi non meno che un secolo fa, quando fu proposto a un Paese che non seppe ascoltarlo e scivolò drammaticamente verso la deriva totalitaria, che lo avrebbe portato alla tragedia del secondo conflitto mondiale. Sarà per noi la storia «magistra vitae»?