19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Pierluigi Battista

In quest’epoca, la parola «mediazione» viene considerata spregevole. E tutti i leader — da Salvini a Di Maio, a Renzi — rifiutano la ragionevole presa d’atto di una situazione che chiederebbe responsabilità, e non l’esposizione del proprio ego

Siamo immersi in un’atmosfera avvelenata in cui, nella politica, la parola «mediazione» è diventata spregevole, «moderazione» un vizio morale da deridere e sinonimo di debolezza sbiadita, e non parliamo di «compromesso», orribile espediente per raggirare il popolo e per nascondere un «inciucio». Viene premiata invece la spettacolarizzazione dell’intransigenza, il trionfo del protagonismo da duello rusticano, la durezza verbale che manda in visibilio la curva tifosa.
Alla vigilia del 2 giugno, celebrazione della nostra identità repubblicana, il rispetto dell’interesse nazionale, quel senso del bene comune che limita e disciplina il virtuoso dispiegarsi del conflitto democratico, della battaglia anche aspra delle idee, e tuttavia entro una cornice di valori e progetti condivisi, quel semplice e forse banale, ma importantissimo, amore per il proprio Paese, tutto questo rende impossibile per i leader politici la minima propensione all’automoderazione. Nell’emergenza nazionale, e queste ore lo sono, a prescindere da come andrà a finire questa storia che ci lascia tutti sgomenti e con il fiato sospeso, scatta invece la corsa alla scelta apparentemente più conveniente per sé, a scapito del bene comune e dell’interesse nazionale. Se si chiede non già un cruento sacrificio, bensì la ragionevole presa d’atto di una impasse dalle conseguenze molto negative per tutti noi, i leader che occupano il palcoscenico della politica rispondono offesi come se la richiesta rappresentasse un’intollerabile umiliazione di fronte a un elettorato scatenato che considera un semplice passo indietro un indizio di tradimento.
Tutti i leader, nessuno escluso. In primis Matteo Salvini, che preferisce far saltare all’ultimo chilometro un governo in procinto di nascere tra mille tormenti pur di non apparire come un capo tremebondo, che media invece di fare la faccia feroce. E poi Luigi Di Maio, che ha tenuto appeso per mesi l’esito delle trattative per un nuovo governo con la pretesa di incarnare l’unico candidato possibile a Palazzo Chigi, con alle spalle un formidabile 32,5 per cento di consensi, clamoroso ma non sufficiente per ottenere la maggioranza: salvo poi accettare tardivamente un ridimensionamento quando la possibilità di un governo con i 5 Stelle è sembrata sfumare. E non si dimentica nemmeno la performance baldanzosa in diretta tv di Matteo Renzi, segretario dimissionario di un Partito democratico ridotto al suo minimo storico, che ha smentito la delegazione del Pd sfilata al Quirinale per dare l’immagine di un leader in trincea, pronto a cannoneggiare, munito di dosi adeguati di popcorn, ogni ipotesi di «inciucio» con gli odiati grillini.
Eppure la storia, non solo italiana, ha mostrato la grandezza di leader che hanno saputo controllare il loro smisurato Ego per salvare la coesione di un Paese in difficoltà e sotto assedio. Senza andare troppo indietro nel tempo (e senza ricordare gli innumerevoli virtuosi «compromessi» che hanno segnato la stessa nascita dell’Italia come Stato unitario), basti menzionare la prudenza di Pietro Nenni per assecondare la svolta storica rappresentata dalla nascita del centrosinistra tra democristiani e socialisti. O il coraggio, pagato a carissimo prezzo, di Enrico Berlinguer e Aldo Moro, per contenere nell’alveo di una politica di unità nazionale (o di «compromesso storico») l’emergenza del terrorismo, anche sfidando le inevitabili critiche delle rispettive basi di militanti ed elettori. E via via, fino ai nostri giorni, con il sempre vituperato Berlusconi che accettò senza strepiti lo stop del presidente Scalfaro sul nome di Cesare Previti, l’avvocato dell’allora nuovo premier, al ministero della Giustizia. E con Pier Luigi Bersani che nella tempesta del 2011, anziché giocare la partita elettorale per lucrare sulle difficoltà catastrofiche del centrodestra, scelse la strada del governo tecnico di Mario Monti per rimettere in piedi un’Italia in ginocchio. Per poi pagarne un prezzo elevatissimo, certo. Ma lo pagò anche, per fare esempi clamorosi della storia europea, Charles De Gaulle quando per il bene della Francia decise, abbracciando una politica opposta a quella promessa ai francesi, di accettare l’indipendenza dell’Algeria, scatenando l’ira golpista e terroristica dei suoi sostenitori che si sentivano traditi.
Paragoni troppo azzardati? No, perché l’Italia vive oggi momenti drammatici, che esigono comportamenti purtroppo disertati dai suoi leader attualmente più in voga. Non conosciamo ancora bene, mentre si approntano le celebrazioni del 2 giugno festa nazionale, la pur provvisoria conclusione di questa stagione politica così caotica. Ma un profondo limite culturale è comunque venuto alla luce, e nel momento peggiore. E c’è davvero poco da festeggiare, nel compleanno di questa Repubblica.

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