Fonte: Corriere della Sera
di Massimo Sideri
Abbiamo bisogno di sostanza, anche perché nel 2020 finirà il vecchio programma Horizon in cui, come è emerso in un recente report del Cnr, non siamo stati bravissimi.
Potrebbe apparire un dibattito novecentesco quello che si è appena concluso alla Commissione europea sull’utilizzo o meno di una semplice parola: era necessario affiancare il termine vintage «ricerca» a «innovazione», più al passo con i tempi? Se n’è discusso per due mesi. E, fortunatamente, la risposta da parte del presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, è stata sì: tra le deleghe della commissaria Mariya Gabriel ci sarà espressamente anche questo termine che, in relazione alla scienza, affonda le sue radici fino a risalire a Galileo Galilei. Che il Sole dovesse scalzare la Terra dal centro di quello che allora era considerato l’universo lo aveva già detto Copernico. E anche il telescopio che, talvolta, viene presentato come invenzione dello scienziato toscano, è in realtà olandese.
Quello che contraddistinse Galilei fu il metodo applicato alla ricerca. Che sia di base o avanzata, questa rimane l’unico vero motore del progresso, anche economico. E non gode di così buona salute da potersene dimenticare. Sarebbe bastata la parola innovazione tra le deleghe? Sinceramente no: stretto tra propagande aziendali e anche politiche il termine è a forte rischio slogan di marketing. Abbiamo bisogno di sostanza, anche perché nel 2020 finirà il vecchio programma Horizon in cui, come è emerso in un recente report del Cnr, non siamo stati bravissimi. Il tasso di successo delle application italiane si è fermato al 7,5 per cento contro una media europea del 13. Secondo molti il programma Horizon 2027, con i suoi parametri più stringenti, rischia di essere un nuovo «bagno di sangue» per la ricerca italiana. Già oggi in termini di Pil diamo molto più di quanto riusciamo a ottenere. Per questo il dibattito così novecentesco sarebbe bene affrontarlo anche qui, in Italia.