22 Novembre 2024

Il dibattito sul premierato: quando si danno poteri così ampi a una persona, bisogna prevedere che ottenga il 50% più uno dei votanti

Il centrodestra sta faticosamente tentando di riparare il progetto di premierato nei punti dove più faceva acqua. Ma per ottenere questo risultato sta anche inevitabilmente toccando le prerogative del capo dello Stato, che pure aveva giurato di voler lasciare intatte. Nella nuova versione il potere di scioglimento del Parlamento passa in molti casi nelle mani del premier, così come quello di proporre la revoca dei ministri. Non è necessariamente un male: almeno così si solleva il velo dell’ipocrisia. L’elezione diretta è infatti una coperta che non può coprire tutto. I poteri del premier, quelli del presidente e quelli del Parlamento, si bilanciano l’uno con l’altro, e in qualsiasi sistema politico chi è eletto direttamente ha una legittimazione sovraordinata. Eppure, nonostante i cambiamenti introdotti, è rimasto in piedi quello che un esperto come Calderisi chiama «il diritto di imboscata» al premier da parte degli alleati. Nel senso che se, facciamo un nome a caso, un giorno Salvini volesse disarcionare il premier eletto, potrebbe riuscirci mandando sotto il governo su una qualsiasi questione di fiducia, e costringerlo così a dimettersi («atto dovuto») senza rischiare lo scioglimento (previsto solo in caso di «dimissioni volontarie»). Il premier continuerebbe così di fatto a dipendere dalla sua coalizione, più che dall’elettorato. Per questo busillis, e per il silenzio minaccioso della Lega, è probabile che il sinedrio del centrodestra debba di nuovo metter le mani nel testo.
Ma il nodo vero, quello intorno al quale si aggrovigliano tutti questi intoppi, è un altro: quale sarà il sistema elettorale che verrà scelto? Oggi sappiamo solo che il premier sarà eletto direttamente, ma non come. Mentre la prova del budino sta nel mangiarlo. Quando si danno poteri così ampi a una sola persona, di solito l’unico modo democraticamente soddisfacente e politicamente funzionante è che debba ottenere il suffragio della maggioranza dei votanti, cioè il 50% più uno. Si può scegliere la formula con cui questo avviene, ma dal presidente degli Stati Uniti a quello francese, fino al sindaco di Varese o Catanzaro, sempre di un ballottaggio si tratta. Questo sistema di elezione risolverebbe inoltre in radice anche la questione dei poteri del premier rispetto alla sua maggioranza. Quindi delle due l’una: o il centrodestra rinuncia all’elezione diretta e si limita a stabilire l’indicazione sulla scheda elettorale del candidato premier, soluzione più che praticabile; oppure, se insiste sull’elezione diretta, deve accettare che non sia finta e preveda la maggioranza assoluta. Se la coalizione di governo sente di avere la forza nel Paese per cambiare la Costituzione e la forma di governo, non si capisce perché mai dovrebbe temere questa seconda soluzione.
Ma, d’altra parte, anche il centrosinistra dovrebbe trovarla conveniente, se davvero il suo obiettivo è di tornare un giorno a governare. L’idea di mettere insieme Schlein, Conte, Calenda e Renzi in una coalizione che possa battere il centrodestra è infatti risibile nelle condizioni attuali. Il mito per cui basterebbe che il centrosinistra si unisse per vincere, e che la mancata unità sia solo frutto di scarsa volontà, è per l’appunto un mito: l’unità non si fa per la semplice ragione che non c’è. Nella sua intervista al Corriere, Giuseppe Conte ha detto chiaro e tondo che la differenza tra M5S e Pd «è nel Dna», cioè genetica, «sui conflitti bellici, sulla transizione ecologica, sulla questione morale e sulla legalità». Della serie: cambiate Dna se volete allearvi con noi. Schlein ha replicato a Conte: «Non siamo più disposti a subire mistificazioni e attacchi», e ha difeso la linea del Pd, anche se non è sempre chiaro quale sia. Con questa incompatibilità non vinceranno mai, avrebbe chiosato Nanni Moretti. Se non costretti dal sistema elettorale a unirsi contro il centrodestra, in una gara che risusciti il bipolarismo e in cui, come avviene in Francia, le differenze si pesino e poi si mettano da parte per convergere sull’unico candidato comune.
Sembra paradossale, ma il centrosinistra avrebbe insomma molto da guadagnare col premierato, se prevedesse una qualche forma di ballottaggio. Sarebbe dunque più utile che abbandonasse la retorica dell’«attacco alla democrazia», e si concentrasse invece su un obiettivo semplice, chiaro e comprensibile per tutti: che il premier venga eletto da una maggioranza, non da una minoranza. Oltretutto, in queste materie sarebbe consigliabile per tutti agire sotto il velo dell’ignoranza, come fecero i nostri «padri costituenti». Nessuno sa quali saranno i leader, i sondaggi, le alleanze, e il capo dello Stato tra dieci/quindici anni. Mentre l’opposizione continua a difendere i poteri del Quirinale come se lì ci fosse in eterno Mattarella o un arbitro quanto lui imparziale; e il centrodestra come se fosse destinato a essere in eterno maggioranza nel Paese. Le parti potrebbero rovesciarsi per tutti i contendenti. Dunque è meglio fare la cosa giusta, piuttosto di chiedersi a chi conviene.

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